Ambiente e Natura

“Sono perle, quelli che erano i suoi occhi…”, di William Shakespeare (2)

segnalato da Sandro Russo
 

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Era il maggio 2011 e sulle pagine del sito riportavamo le strofe di un sonetto di Shakespeare (leggi qui) che evocavano un naufragio con accenti di sublime poesia.
Gli stessi versi usa la “nostra” Melania Mazzucco (sul sito, leggi qui) per commentare la più recente delle tante tragedie del Mediterraneo.
Qui di seguito il suo scritto su la Repubblica di oggi 15/6.


Il commento
Il mare della pietà perduta
di Melania Mazzucco

“A cinque braccia sul fondo/ tuo padre è sepolto./ Son fatte corallo le sue ossa/ due perle quelli che erano i suoi occhi./ Nulla di lui va disperso/ ma una magia del mare/ lo tramuta in qualcosa/ di ricco e strano./ A ogni ora le ninfe del mare/ rintoccano per lui”. Così cantava Ariel ne La Tempesta di Shakespeare.
A quante braccia sul fondo del Mediterraneo giacciano i dodici corpi abbandonati in acqua dalla Trenton della Us Navy non lo sapremo forse mai.

La notizia ci raggiunge nelle nostre case quando siamo saturi di naufragi e di salvataggi.
La ripetizione di un evento non ne moltiplica l’eco, ma lo smorza e infine lo annulla, e benché questa consegna di morti al mare sia forse il primo episodio di una nuova serie della saga migrante, suscita appena uno sprazzo di sgomento.
Un giorno ci chiederemo come e quando è successo, in quale occasione, se ce n’è stata una, è stato oltrepassato il limite, ci siamo lasciati dietro il nostro antico modo di essere uomini e donne di questa terra e siamo diventati qualcos’altro – e non di ricco e strano. Ma forse non c’è stato nemmeno bisogno di un fatto: le mutazioni semplicemente avvengono.

Anno dopo anno, giorno dopo giorno, alla comprensione e al ricordo della nostra somiglianza, e perfino della nostra storia identica, sono subentrati il sospetto e la paura, al rispecchiamento nell’altro il rifiuto di riconoscerlo come individuo della propria specie, alla pietà una infastidita indifferenza quando non una belluina crudeltà. Si è arrivati a ridere della disgrazia degli altri. Definire “crociera”, come ha fatto Salvini, il viaggio di centinaia di esseri umani su una stessa nave è una battuta perfetta: diverte chi la pensa come te, e ti aizza contro chi la pensa diversamente. Ma fare del sarcasmo a spese dei più deboli ci rende ancora meno simili a ciò che siamo stati o dovremmo essere.

Se ci si potesse sbarazzare allo stesso modo della zavorra di corpi vivi (sempre che la condizione spettrale in cui abitano da mesi e forse anni possa essere ancora definita vita) che ancora navigano nel Mediterraneo in cerca di un porto (e se si potesse non saperlo, o fingere di non saperlo), lo si lascerebbe fare.
Ma la remissione e l’oblio provocati da una pressione sociale sono immorali, scriveva Jean Améry.

La nave Aquarius ha il nome fausto di una costellazione zodiacale, e a tutti quelli che hanno qualche capello bianco ricorda la canzone gioiosa di un film contro la guerra, popolato di giovani libertari e sognatori, che annunciava l’inizio di un’era di pace. Anche se parole e mare promettono tempesta, la logica dice che la storia dell’Aquarius non finirà tragicamente. I salvati troveranno un porto, anche se non troveranno mai la vita (del resto irreale e improbabile) che sognavano. Nel migliore dei casi ne troveranno una di riserva, scartata dagli altri, e sarà già abbastanza.

Così in queste ore, mentre le ninfe del mare rintoccano di nuovo il loro funebre dindòn, mi ripeto la canzone di Ariel e mi chiedo in cosa di ricco e strano potranno mai mutarsi i dodici corpi (uomini? donne? bambini?) lasciati nella discarica mediterranea.
Perché la magia del mare funziona ancora. Il mare non dimentica, restituisce e trasforma ciò che non gli appartiene.
Quei corpi non diventeranno perle e coralli, ma nulla di loro andrà disperso.
Diventeranno ciabatte, monconi e stracci che le onde rumineranno mesi e anni, per poi deporle su qualche spiaggia, come immonde uova di un’umanità infeconda.
La nostra.

[Da la Repubblica del 15 giugno 2018]

1 Comment

1 Comment

  1. Rinaldo Fiore

    15 Luglio 2018 at 19:25

    “Perle i suoi occhi…” (leggi anche qui)
    Quando andai a trovare l’amica ceramista nel suo laboratorio, a tenerle compagnia e ad imparare la pittura su ceramica, c’era una giovane italo-argentina di poco più di vent’anni, una bella giovane con un qualcosa in più, degli occhi di un marrone scuro brillante che emanavano una luce d’amore spontaneo, una carica radiante di energia che si diffondeva nell’aria tutt’intorno.
    Non potei evitare di assorbire quella energia, e quel sorriso che plasmava il suo viso riforniva di bellezza la luce dei suoi occhi. Scambiai poche parole con lei e con l’amica, tutto intento a rimirare quel dono della natura: restai abbagliato come per un colpo di fulmine… Ma la giovane già era perla e frutto di un amore, e così accettai quella bellezza pura come un dono che la vita mi faceva e, salutando entrambe, tornai alla mia scrivania…
    Sono passati venticinque anni da allora, e mai ho dimenticato quel fiore pieno di vita e simbolo d’amore…

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