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La colonnina di onice. Breve racconto di vita

di Rinaldo Fiore
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Non so come è venuto fuori che ho scritto un breve monologo che ha costituito, quando facevamo le prove, motivo di frizione tra me e mia moglie: lei sosteneva che dovevo imparare a recitarlo così come l’avevo scritto, mentre io pensavo di poterla liberamente adattarla alla mia memoria e alle mie emozioni al momento. Il maestro di teatro ci diceva che dovevamo provare a farlo così come ci veniva meglio in modo che i nostri sentimenti venissero fuori sinceri ed emozionanti.
“La colonnina di onice”, il monologo si intitolava così, io l’avevo scritto perché la mia storia familiare con mia cognata era talmente presente nella mia mente da
assurgere ad esempio delle difficoltà relazionali e sentimentali che accadono nelle famiglie nel corso del tempo.
Mia cognata era una donna forte e piena di energia e cercava sempre di far prevalere le sue opinioni rispetto a quelle degli altri, fatto comune a molte persone.
I rapporti tra noi erano “guerreschi”; momenti di tranquilla vita in comune accanto a periodi di frizioni che ci portavano addirittura a non frequentarci per certi periodi. Ragione… torto… non avevano importanza, mentre la testardaggine e il desiderio di prevalere sugli altri dominava i rapporti umani.
Scrissi “La colonnina di onice” dopo che Luigia ci lasciò, in omaggio a Lei e alla sua famiglia, per l’amore che infine aveva prevalso sugli aspetti negativi delle nostre personalità.

Mio padre conosceva un marmista da cui si serviva per i suoi lavori e da lui ricevette in dono un tavolino di onice e una colonnina sempre di onice.
Papà e mamma la sistemarono in un angolo protetto della sala da pranzo e lì era rimasta fino alla morte di entrambi i miei genitori. Faceva parte dell’arredo della casa; non mi ero posto il quesito se mi piacesse o no.
Quando andammo a svuotare casa di mamma per poterla vendere, dato che a noi figli non interessava, preparammo dei pacchi di tutto, in modo che ciascun figlio potesse scegliere, finché non arrivammo alla scelta finale dei grandi oggetti di casa, come televisori, mobili, quel po’ d’argento che c’era, i quadri… insomma tutto e, in particolar modo, una vetrinetta di mogano bellissima, il tavolino di onice e la colonnina di onice.
Le scelte furono fatte in base all’età, per primo mio fratello poi mia sorella e infine il sottoscritto.

La colonnina di onice non interessava né a mio fratello né a mia sorella per cui, dovendo toglierla da lì me la presi io.
Non l’avessi mai fatto! Mia cognata Luigia dal giorno successivo cominciò a martellarmi chiedendomi la colonnina di onice o come dono a lei o in cambio di un altro oggetto. Lei, Luigia si era dimenticata della colonnina di onice e quindi non aveva spinto mio fratello alla “sua conquista”. Io, testardo più di un mulo, gliela negai sempre, visto che era stata una scelta libera (le scelte erano state fatte dagli eredi diretti senza consorti).
Ricordando tutti i momenti della mia storia familiare intorno alla colonnina di onice ho riportato nel monologo i tratti salienti delle nostre vicende umane, rappresentandole poi come piéce teatrale profondamente commovente.
In eredità i miei genitori ci hanno lasciato anche una colonnina di onice, bella e niente più ma era di mamma e papà!

Per anni mia cognata mi ha chiesto la colonnina d’onice ma io non ho mai voluto cedere perché noi figli avevamo già scelto, nessuno aveva voluto la colonnina e poi io avevo scelto per ultimo: mia cognata era tenace ma io lo ero di più e soprattutto eravamo antagonisti.
Il tempo è passato, anni son passati e la vita ci ha presentato il conto.
All’improvviso abbiamo saputo che mia cognata stava male e allora tutto è saltato e ho ceduto… anche se “in comodato d’uso!”.
Luigia già stava in flebo per difficoltà ad alimentarsi… seduta sulla poltrona e quel giorno io e mia moglie le portammo la colonnina… pesante e bella.
Quando entrammo in casa e la vide, fu inno alla gioia, una felicità e i “Grazie Rino!” si sprecavano: anche per noi fu un momento di felicità perché la sua gioia era la nostra, la sua felicità ci inondava il cuore d’amore per lei!
Assieme alla colonnina portammo anche due cassette di frutti del nostro terreno che lei amava tantissimo e ciò aumentò la sua gioia…
Ci abbracciò stretti stretti tra i suoi “Grazie Rino, grazie Paola!”, mentre si rimirava la colonnina sistemata in un angoletto protetto.

Il tempo passava e la malattia procedeva rapidamente e pian piano mia cognata si spegneva e così i medici, d’accordo con mio fratello e con i figli, decisero di sospendere le cure… in giornata sarebbe accaduto! (…ho difficoltà a parlare di morte).
Mio fratello ci telefonò raccontandoci i fatti e noi subito corremmo da Lei ma per me, per noi, che eravamo del mestiere, era evidente che sarebbe passato più tempo, il suo tempo! Ero molto addolorato…
Dopo due giorni, con il nostro carico di frutti e di sofferenza tornammo da Luigia che era distesa sul letto con i suoi capelli tinti di rosso e vivaci: mia nipote le accarezzava la mano ed io, seduto accanto a Lei le accarezzavo la fronte con la mia manona calda. Subito Luigia riaprì gli occhi e riconoscendomi sorrise di gioia “Rino…!” disse ed io risposi “Luigia…!” con altrettanta gioia: quanto affetto, quanto amore in quelle due parole che vincevano il nostro strazio!

Per cinquant’anni c’eravamo sfidati contrapposti ed ora un grande amore familiare ci univa! Incredibile!
Il giorno dopo Luigia si spense e quando la sistemarono, dalla colonnina di onice una fotografia ci illuminava col suo sorriso: “Rino”… “Luigia”