Attualità

Melania Mazzucco, scrittrice

segnalato da Sandro Russo

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“Robinson”, l’inserto culturale domenicale de ‘la Repubblica’ di ieri 27 maggio – da cui ho tratto la notizia del Festival letterario di Procida “Procida racconta”  – era tutto dedicato agli eventi aggreganti estivi in giro per la penisola. Conteneva tra l’altro un articolo di Melania Mazzucco sulla sua esperienza di scrittrice a contatto con i suoi fans (che qui riportiamo come secondo scritto, insieme ad un estratto autobiografico).

Melania Mazzucco ha esordito nel romanzo nel 1996 con Il bacio della Medusa; “Vita”, del 2003, è stato un suo grande successo, in Italia e all’estero, in cui reinventa in chiave fantastica e picaresca la vera storia di emigrazione in America del nonno paterno Diamante (anche vincitore del Premio Strega).

La famiglia paterna della Mazzucco era originaria di Tufo di Minturno, ma fu soltanto durante le ricerche di archivio per la preparazione del romanzo “Vita” che la scrittrice lo scoprì: aveva creduto fino ad allora di essere di origine piemontese.

Così lo racconta lei stessa in un estratto da “L’invenzione della memoria. Cos’è la verità?”: 

Sono cresciuta nella convinzione che la mia famiglia fosse di origine piemontese. Così mi aveva raccontato mio padre, che l’aveva appreso dal suo, che a sua volta lo sapeva dal padre, il quale era figlio di un ufficiale sabaudo, scopertosi rabdomante dopo aver abbandonato il mestiere delle armi. Questa origine costituiva fonte di orgoglio per i miei familiari, che vedevano nell’aggettivo ‘sabaudo, piemontese’ un sinonimo di ‘onesto, integro, incorruttibile’. Nonché di persona leale – alla legalità, allo Stato, all’onore -, amante del lavoro, rispettosa delle regole e con un forte senso della comunità. (Nutrivano una certa diffidenza invece per l’aggettivo ‘meridionale’, che associavano a comportamenti da loro considerati disonesti: la furberia, l’individualismo, l’illegalismo, il vittimismo e la rassegnazione).
Con grande sorpresa appresi perciò, svariati anni fa – mentre in un archivio di Tufo di Minturno lavoravo alla ricostruzione della storia di mio nonno, che avrebbe costituito la base del mio romanzo Vita – che nulla di tutto ciò era vero. All’origine della famiglia non c’era nessun ufficiale piemontese. Almeno fin dal 1590 i Mazzucco abitavano a Tufo di Minturno, che ha sempre fatto parte del Regno di Napoli. Il suo capoluogo di riferimento era Caserta. La sua gente, nota per l’insofferenza verso l’autorità dello stato, viveva col coltello in tasca e le pietre in mano. Perciò, tecnicamente, eravamo meridionali.
Infatti “southern italian” è scritto sul documento d’ingresso in America di mio nonno. Allora, all’inizio del XX secolo, gli americani teorizzavano l’esistenza di due razze di italiani: i celtici e i latini. Ovvero, i nordici e i meridionali (detti anche spregiativamente i sudici). Mio nonno sapeva leggere e perciò vide quella scritta. Dunque mio nonno conosceva la verità. Però non la disse.
In America, visse tra i ‘latini’ (i meridionali), e finì per guardarli con gli occhi degli altri, e scoprì i ‘nordici’ – di cui fino a quel momento, essendo sempre vissuto nel suo piccolo villaggio, ignorava perfino l’esistenza. Essi lo disprezzavano, ma gli piacquero.
I ‘nordici’ piacevano anche agli americani, che li assimilavano più facilmente dei ‘latini’. I ‘nordici’ erano percepiti semplicemente come ‘italiani’ – e nel loro caso questa le sfumature malevole implicite nella parola si attenuavano. Mio nonno si riconobbe in quella gente che non lo riconosceva. E rifiutò lo stigma dell’origine che gli avevano affibbiato gli americani. Voleva essere un italiano senza aggettivi. Quando, dopo dieci anni d’America, tornò in Italia, lasciò definitivamente il suo villaggio: emigrò a Roma e si costruì una nuova storia, e un nuovo passato – per costruire alla futura famiglia un altro destino.
Così anni dopo raccontò al figlio – deliberatamente – una menzogna. Su quella menzogna mio padre costruì la sua identità.
Dunque in un certo senso la verità aveva cambiato di segno – la sua carica si era invertita, come il nucleo di un atomo che abbia perso o trovato altri elettroni. Perché la menzogna era diventata vera. Riservato, legalista, lavoratore testardo, alieno da ogni rassegnazione fatalista, nessuno era più piemontese di mio padre.
Quando riferii ai miei anziani parenti ancora in vita la sensazionale scoperta da me fatta negli archivi di Tufo di Minturno, nessuno di loro mi credette. Di fronte alle inoppugnabili prove documentarie, rimasero indifferenti.
“Ti sarai sbagliata”, mi dissero. “Avrai letto male”.
La verità storica era per tutti loro un lapsus: un errore della filologia.

Da allora, continuo a interrogarmi sul senso di questa storia. Questa esperienza ha incrinato le mie certezze e cambiato il mio modo di pormi di fronte alla scrittura stessa. Sicché non saprei più cosa sia davvero la ‘verità’, se non ciò che noi riteniamo tale.

Due diverse edizioni del romanzo, Rizzoli e Einaudi

E qui di seguito il suo secondo scritto, da la Repubblica di ieri:

Noi giù dal trono il lettore si fa re
di Melania Mazzucco

Se i libri sono un vizio di pochi, allora il segreto del successo sta nel transfert con il pubblico.
Parola di un’autrice che, per un fan, ha pianto.

Sono cresciuta quando lo scrittore era un nome sulla copertina di un libro. E a volte nemmeno quello. Credo di non aver mai saputo chi fossero gli autori di Piovuta dal cielo, Jane Eyre o Zanna bianca — alcuni tra i titoli preferiti dei miei dieci anni, letti, riletti e consumati al punto da perdere la copertina. Peraltro nascosta da una fodera di carta da pacchi, perché non si stracciasse. Il nome poteva appartenere a una persona defunta da secoli o vivissima, perfino vicina. Non me lo sono mai chiesto. Il mio rapporto era col libro, coi suoi personaggi e con la voce che mi parlava dalle righe stampate. Non mi sarebbe mai venuto in mente di incontrare l’individuo che si celava dietro quel nome… Mi illudevo che lo scrittore avesse al dito l’anello di Gige, che lo rende per sempre invisibile. Ma ho pubblicato il primo romanzo nel 1996, e poco dopo anche in Italia si affermavano i festival di letteratura. Sono eventi, feste, librerie e palcoscenici — ma soprattutto esperienze di vita per chi vi partecipa, sia che sieda davanti alla platea, sia che ne faccia parte. La mia prima volta è stata a Cuneo nel 1998. Poi ce ne sono state tante, ovunque — da Mantova a Göteborg, da Toronto a Procida, Cartagena de Indias, Algeri, Teheran.

Ricordo tutto: le scomode sedie di plastica su cui gli eroi del pubblico resistevano ore, le zanzare, il fruscio dei microfoni, le domande sceme o filosofiche degli intervistatori, le cene cerimoniose con scrittori da Nobel e quelle improvvisate con lettori le cui domande meritavano risposta, le passeggiate verso l’hotel con donne e ragazzi di cui avevo già dimenticato il nome, o che sarebbero diventati miei amici di una vita, lo stalking aggressivo, la dedizione commovente, le frasi sussurrate da anime che non vedrò mai più e che mi hanno dato la forza di continuare a scrivere, anche se non gliel’ho mai detto. Ma dalla collezione di atmosfere, volti e aneddoti, ne estraggo solo due. Sono state le più preziose lezioni di vita. La voce roca di un uomo sui settant’anni, chino su di me, seduta al tavolino della firma copie (il momento più imbarazzante di un festival per lo scrittore). Non c’è la fila, sono “un’autrice di nicchia”. Bisbiglia di essere reduce da una grave malattia. Al momento del ricovero, non sapeva se sarebbe mai uscito dall’ospedale. Ha dovuto scegliere di portarsi un solo libro, forse il suo ultimo. E ha scelto quello che mi sta porgendo. Era mia la voce che voleva accanto. Scarabocchio il suo nome raggomitolata sulla pagina, perché non veda che piango. Ho imparato la disponibilità: se un festival può farti un dono simile, non avrai più il diritto di dire a chi ti invita: grazie no, troppa fatica mi costa mostrarmi, ed esistere. Anni dopo. Il ponte sul lago Inferiore, alle mie spalle il castello dei Gonzaga, l’auto che mi trasporta rallenta: migliaia di persone ingombrano la carreggiata. C’è un concerto? chiedo all’organizzatore che mi accompagna. Vengono al tuo incontro, risponde, sorpreso. Premo il naso sul finestrino.

Ragazze con lo zainetto, uomini con gli occhiali, gruppi di amiche di mezza età. Generi e generazioni diverse. Una varietà che rinnega ogni teoria sul lettore tipo, l’incarnazione del sogno pazzo di universalità che nutre ogni scrittore… Ho imparato l’umiltà. Ricordati che loro non sono qui per te, ma per il tuo libro. E nulla ti assicura che ne scriverai un altro così.

Non scambiare i festival per la realtà. Sono il mondo alla rovescia del carnevale, la cuccagna della letteratura. Impedisci che diventino la fiera della tua vanità. I frequentatori dei festival si assomigliano tutti, come le famiglie felici.

Sono lettori appassionati, esigenti, spesso competenti, a volte prepotenti. Ma i festival sono tutti diversi. In Italia un festival è prima di tutto un luogo. Quasi ogni borgo o metropoli ne vanta uno: nel momento in cui lo organizza esibisce anche sé stessa. Cortili rinascimentali, rovine romane, piazze, portici, musei, miniere, castelli, tonnare, vigneti. Bellezze che non sono solo una cornice o un fondale, ma la quintessenza del festival letterario italiano. Un’idea vincente, in un paese refrattario alla lettura: il messaggio subliminale è che i libri — e il mondo che li circonda — possano essere qualcosa di bello.

Non si spiega altrimenti perché negli altri paesi — dove non c’è bisogno di seduzione — gli incontri si tengano spesso al chiuso, in severe sale conferenze e mesti spazi espositivi, e perché i lettori ascoltino e tacciano, rispettosi, distanti. In Italia l’autore non è solo il Personaggio in trono sul palco, ma la Persona cui vuoi comunicare le tue idee, raccontare la tua visione del mondo, che appartiene alla tua vita. È in questo coinvolgimento emotivo — che non esito a chiamare transfert — il segreto del successo misterioso dei nostri festival (che tanto stupisce e affascina gli scrittori stranieri). In Italia la lettura è ancora un vizio di pochi. Ma è diventato un rito pubblico che rigenera e rafforza tutti gli officianti.

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