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Il linguaggio dei gesti

proposto da Sandro Russo
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Credo di essermi molto sensibilizzato all’importanza della mimica e dei segni in genere durante un viaggio di alcuni anni fa in Cina, raccontato anche sul sito (leggi qui [2]).
In quell’occasione ebbi la diretta esperienza di quanto siano diversi i popoli al riguardo; quando anche i gesti che riteniamo più banali – come per dire perché? Dove? Quando? – sono motivo di incomprensione.
Per non parlare dei movimenti della testa degli indiani – comuni anche tra i singalesi, che conosciamo meglio – per dire sì e no. Famosa la frase di Domenico (Musco) alle sue prime esperienze con quel popolo: Ma ha ditte sì ca vuleva dice no o ha ditte no che vo’ dice che sì?
Semplicemente non ci si capisce. E non è un problema di poco conto.

E’ quindi evidente il motivo del mio interesse quando ho visto, pubblicato su la Repubblica di ieri 10 aprile un articolo sul tema a firma di Marco Belpoliti, cmolto interessante e un’ampia bibliografia.
Riporta tra i primi studiosi della gestualità un tal Andrea De Jorio (1769 –1851), canonico di area napoletana (procidano di nascita) – archeologo, etnologo e antropologo della prima ora – autore di un testo basilare di tale  disciplina: “La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano”. Napoli, Stamperia del Fibreno (1832), citato anche da Benedetto Croce.

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Di particolare attualità, per noi da sempre interessati alla comune matrice dei popoli dell’area mediterranea, la modalità dell’investigazione compiuta dal De Jorio; un aspetto diverso ma per certi versi analogo all’espressione dialettale.
De Jorio ha studiato la gestualità dei napoletani, individuando una continuità del linguaggio del corpo tra l’epoca in cui scriveva rispetto al tempo antico, in particolare mostrandone le similitudini con il linguaggio gestuale degli antichi greci, ricavato dalle raffigurazioni presenti su vasi e reperti archeologici.

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Qui di seguito l’articolo citato (riportato anche in file pdf in calce):

Ecco perché ognuno ha i suoi gesti

di Marco Belpoliti
La gestualità. Fra antropologia e scienza

Uno dei padri fondatori è Andrea De Jorio che nell’Ottocento dimostrò il legame tra il famoso gesticolare dei napoletani e quello degli antichi greci
Lo psicologo Michael C. Corballis sostiene che anche in questo campo siamo gli eredi delle scimmie antropomorfe, nostre progenitrici

Il termine latino gestus ha un doppio significato. Da un lato, indica i movimenti di tutto il corpo, dall’altro, solo quelli delle mani. Nel corso del Medioevo i gesti erano tenuti in grande sospetto, in particolare nel mondo monastico. Gli eretici erano identificati dal fatto che gesticolavano in modo eccessivo, ma già i predicatori francescani studiavano la mimica per rendere più efficace la loro predicazione.
Che cos’è dunque un gesto?
Se lo chiede una giovane studiosa, Emanuela Campisi (Che cos’è la gestualità, Carocci, pagg. 124, euro 12).
Ma anche – sulla scia di un libretto di Bruno Munari del 1958, Supplemento al dizionario d’italiano (Corraini), continuamente ristampato – Lilia Angela Cavallo, architetta e fotografa, che ha pubblicato non molto tempo fa Il dizionario dei gesti (Iacobelli editore), composto di 243 gesti censiti nel corso degli anni fotografando amici e conoscenti.
Noi italiani, come si sa, non solo gesticoliamo molto, e per questo siamo oggetto da molti anni di studi di semiologi e linguisti di tutto il mondo, ma vantiamo anche un libro anticipatore redatto dallo studioso napoletano Andrea De Jorio nel 1832, ripubblicato da Forni nel 2002), La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano.

Archeologo e canonico, De Jorio aveva mostrato come i gesti dei partenopei discendessero direttamente da quelli degli antichi greci che aveva studiato sui vasi e nei reperti.

Ma la domanda che si sono posti gli studiosi è: i gesti sono innati o invece appresi? Nel 1941 un allievo dell’antropologo Franz Boas, David Efron, aveva risposto alle ideologie razziste dei nazisti, per cui il comportamento è derivato da un’eredità biologica, mostrando come il modo tipico di gesticolare di ebrei e italiani appena arrivati in America scompare man mano che gli individui sono assimilati nella nuova comunità. Il suo Gesto, razza, cultura, la cui traduzione italiana nel 1974 era stata voluta da Umberto Eco, mostrava come i gesti dipendano non solo dalla cultura da cui si proviene, ma anche da quella in cui si vive.

I gesti sono un linguaggio a sé, o invece dipendono e interagiscono con il parlato?

Negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo lo scienziato inglese Adam Kendon, autore di saggi come Gesture: Visible Action as Utterance (Cambridge University Press, 2004) ha approfondito la questione studiando la lingua dei segni degli aborigeni australiani così come i gesti delle mani dei napoletani. È stato lui a sviluppare quella che si chiama l’analisi cinetica del gesto e creando la terminologia sulla gestualità oggi in uso.

Come oggi spiega Campisi, ci sono gesti delle mani e delle braccia totalmente dipendenti dal parlato; ad esempio, il movimento verso il basso che indica lo scendere le scale; poi ci sono gesti che s’integrano nel parlato e aggiungono qualcosa a quello che si sta dicendo: una frase che termina con un gesto non compreso nella espressione verbale; poi c’è la pantomima, dove i gesti mimano azioni o oggetti senza usare il parlato; e infine gli “emblemi” detti Italianate gestures: sostituiscono il parlato e sono altamente convenzionali, come “ok” o il gesto della mano a borsa o a grappolo, ritenuto il gesto italiano più famoso del mondo, che si trova sulla copertina del libro di Munari e indica dubbio o domanda. Oltre a questi ci sono le lingue dei gesti, come quelle usate dalle comunità dei sordi, dai monaci, dagli indiani d’America e dalle donne aborigene australiane, che usano i gesti quando è loro vietato parlare. Sono questi i gesti che attirarono l’attenzione di De Jorio e anche di Desmond Morris in un libro oggi introvabile, Gesti (Mondadori).

Una serie d’altri gesti sono detti deittici, quelli con cui si mostra qualcosa: indicare con un dito un oggetto, una posizione, una direzione. Sembrano gesti semplici, e invece sono molto complessi da descrivere. Si tratta dei gesti che tutti noi abbiamo usato da bambini. Nel libro di Lilia Angela Cavallo ci sono anche i gesti che vengono condivisi in una cultura e non accettati in un’altra; nelle culture aborigene australiane, e in alcune africane, il mezzo più usato per indicare sono le labbra e non l’indice.

Come sono nati i gesti?
Lo psicologo e neuroscienziato Michael C. Corballis, nel suo libro Dalla mano alla bocca (Raffaello Cortina) argomenta che derivano dalle scimmie antropomorfe, nostre progenitrici. Perché allora è sorto il linguaggio vocale?
Per la complessità imposta della vita di gruppo: comunicare nel buio, dover comunicare mentre le mani erano occupate, esprimere sentimenti ed emozioni. Corballis è stato criticato, ma il suo libro è senza dubbio affascinante. I gesti e il loro studio hanno infatti a che fare con qualcosa d’ancestrale e d’arcaico che c’è in noi, qualcosa che l’evoluzione non ha cancellato, anzi ha provveduto a mantenere. Delegheremo anche questo alle macchine nel prossimo futuro?

[5]Puozza sta bona. Lasseme ire

File pdf dell’articolo: Ecco perché ognuno ha i suoi gesti. Da ‘la Repubblica’ del 10.04.18 [6]

[7]Te l’aggie tutte scevete