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Prove pratiche di dialetto

di Francesco De Luca
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Mi sembra scontato ribadire da parte mia (ossessiono questo Sito con poesie in dialetto ogni settimana ) che il dialetto è importante nella formazione di ognuno. Perché è il linguaggio materno, quello che al significato razionale aggiunge una connotazione affettiva.
Se poi si nasce in una comunità (come quella ponzese) che rischia di scomparire, travolta dalla accelerata e sconvolgente omologazione culturale, il dialetto rappresenta una ragione di identificazione insostituibile.
La sua difesa cozza però contro diversi ostacoli:

1° – Il dialetto è essenzialmente lingua parlata. Si alimenta di rapporti che si consumano e si tramandano a voce. Se gli scambi dialettali sono risicati o relegati a convenevoli, la lingua parlata si inaridisce, diventa stereotipata. Perde quella spinta che la vivifica e la rinnova. Sì, perché il dialetto vive della e nella pratica quotidiana.
Si dismette di andare in barca a remi… ebbene questo implica la perdita di vocaboli e modi di dire inerenti a quella pratica. Scàrmulo, alliémmo, struòppele, sia’, vuga’… e altro, si sperdono nel dimenticatoio.
Si dismettono di costruire le cupole nelle case… e tutta una serie di espressioni legate a tale manualità (materiali, strumenti, gesti) vanno (o sono andate) perdute.

2° – Allorché si constata la precarietà dello stato in cui versa il dialetto e non se ne vuole perdere la bellezza la cultura tenta di bloccare la perdita trasferendolo nella forma scritta. È un’operazione forzata di per sé, giacché il dialetto si alimenta di oralità. Raggelandolo nello scritto perde la duttilità e si irrigidisce in forme. Quali forme? Quelle che si affermano attraverso un autore importante o attraverso scuole di scrittura accreditate. Questo genera una molteplicità di scritture. Tutte valide, perché tutte ispirate al parlato, ma non tutte seguite allo stesso modo. La scrittura di Di Giacomo è seguita più di quella di Ferdinando Russo, quella di De Filippo è diversa da quella di Totò, e così via.

3° – Si genera a questo punto un cambiamento di procedimento scritturale. Mentre prima si cerca di mettere in italiano l’espressione parlata, dopo si cerca la migliore forma dialettale per rendere chiaro il significato che la frase ha in italiano.

Perché avviene questo? Perché quella forma dialettale è in disuso, non ha più, nel linguaggio parlato, la sua spiegazione chiara. Quella forma dialettale che voglio scrivere la devo rendere più vicina alla forma in italiano, affinché possa essere capita agilmente.

Esempio pratico: devo scrivere in dialetto la frase in italiano: cosa devo fare? La rendo ch’aggia fa’?
Devo scrivere in dialetto la frase in italiano: gli devo dire. La rendo: ce aggia dice.
Apriti cielo! Critiche a non finire! Le due versioni sono vagliate e trovate difettose. Non mi credete? Aspettate i commenti e ve ne renderete conto.

Nel frattempo potete provare a trasportare nel nostro dialetto le due frasi e inviate la versione al Sito (con qualche spiegazione, possibilmente, delle ragioni di tale scrittura). Ne vedremo delle belle.
E bello sarà aver alimentato il confronto. Non lo scontro, perché allora oltre al dialetto si dorranno anche i nostri rapporti. E questo non deve avvenire.

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