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Il recupero del dialetto. Sommessa proposta

proposto da Sandro Russo
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Non è una battaglia di retroguardia né un’operazione da nostalgici.
Da sempre propugniamo il dialetto come uno dei capisaldi della cultura locale (il dialetto ponzese, nel caso nostro) e abbiamo dalla nostra nomi illustrissimi, come Antonio Gramsci:
“Non bisogna confondere vocabolario con linguaggio. Il vocabolario è un museo di cadaveri imbalsamati, il linguaggio è l’intuizione vitale che a questi cadaveri dà nuova forma, nuova vita in quanto crea nuovi rapporti, nuovi periodi nei quali le singole parole riacquistano un significato proprio e attuale. (…)

“La lingua non è solo mezzo di comunicazione: è prima di tutto opera d’arte, è bellezza, e che tale sia anche per i più umili strati sociali si vede dal riso che suscita chi non si esprime bene in una lingua o in un dialetto che gli è estraneo abitualmente” [La riflessione linguistica ne “ I Quaderni dal carcere” – Ibidem].

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E altrove:
«Franco mi pare molto vispo ed intelligente: penso che parli già correntemente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispiaceri a questo proposito. E’ stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente in sardo. Ciò ha nuociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi fare questo errore coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto ma una lingua a sé, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino più lingue, se è possibile. Poi l’Italiano che voi gli insegnerete sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile; egli non avrà contatto con l’ambiente generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi, ed un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza. Ti raccomando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire, tutt’altro.» [da A. Gramsci – Lettere dal Carcere – 1927]

Ma sul sito abbiamo riportato anche le posizioni (favorevoli) sul dialetto di Tullio De Mauro [3] e Andrea Camilleri

Nel ridotto isolano il non dimenticato Ernesto Prudente nel suo libro ’A pànje – i proverbi di Ponza, oltre al generale abbandono del dialetto da parte delle generazioni più giovani, nota delle differenze lessicali, espressioni di diversi modi di dire, riferimenti, similitudini che sono cambiati nei giovani rispetto ai vecchi…

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Scrive Ernesto:

“Nella raccolta di questi modi di dire e proverbi ho notato una scarsa partecipazione delle persone fino ai trenta – quarant’anni. Esse conoscono poco la lingua dei loro genitori. Per tantissimi giovani questo modo di esprimersi dei vecchi sembrava arabo. Non può essere anche questo uno dei motivi di incomprensione, di cui tanto si parla, tra generazioni diverse? (…) Il frasario dei vecchi rispecchia un certo tipo di società, di civiltà e di cultura che i giovani di oggi rifiutano di accettare.
I vecchi andavano c’u vient’ ’n poppa; i giovani vanno a tutto gas
I vecchi sbariàvene comm’e pazze; i giovani sono su di giri
I vecchi andavano a vela e a rimme; i giovani sono in sintonia
Il vecchio è fujute comme ’u vient’; il giovane è partito in quarta
Per il vecchio s’è ’nfucata ’a viola; per il giovane si va a ruota libera
Il nostro dialetto si è appiattito così da ridursi ad un italiano con accento dialettale. I giovani ponzesi, più evoluti e colti dei loro padri, tendono ad abbandonare la parlata dei loro padri?”.

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E veniamo alla proposta.
Perche non diventa un progetto della nuova amministrazione – dei vari delegati alla “cultura”, in tutte le sue articolazioni – il recupero del dialetto?

Quanto potrebbero aprire gli orizzonti culturali, sia sulla lingua italiana che sul dialetto, le esperienze di ex insegnanti come Franco De Luca e Silverio Lamonica? Quanto potrebbero fare a tal fine i maestri delle scuole elementari e delle superiori? E non potrebbero in questo quadro intervenire persone senza specifica esperienza di insegnamento, ma conoscitori del dialetto, anche delle loro derivazioni dal napoletano, dell’ischitano (penso a persone come Irma Zecca, Alfredo Scotti, Isidoro Feola)…

Dei seminari, dei “Corsi di Dialetto ponzese” dovrebbero avere un programma, una scaletta, essere articolati in settori, ma perché non provare a proporli, dopo averne fatto opportuna pubblicità?

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Di estrema attualità su questo tema l’articolo de ‘la Repubblica’ di ieri 7/3 (anche in file .pdf a fondo pagina, completo di tabelle e schemi).

L’insegnamento
Tradizioni da recuperare

La rivincita del dialetto fra i banchi di scuola
Gli idiomi locali a rischio estinzione
E così dal Veneto alla Sicilia si moltiplicano gli istituti che cercano di salvarli organizzando corsi. Di grande successo

di Enrico Ferro e Ilaria Venturi

«Sito mato?» domanda il professore in classe. Tanto per spiegare che la costruzione della frase in veneto è la stessa dell’inglese: « Are you crazy? ».
Si divertono i ragazzini della media Fogazzaro di Trissino, nel verde delle colline vicentine.

Nelle scuole di Genova i nonni volontari invece partono dal lessico, i bambini imparano a dire bàrba, làlla e madonâva: zio, zia e nonna. Alla primaria Montale del quartiere Sanpierdarena si sono spinti anche oltre: tradurre Dante in genovese. Mentre la prima lezione di romanesco all’istituto Milanesi lungo la via Appia Pignatelli si fa sul verbo avere: avecce. E vai col presente indicativo: io ciò, tu ciai, lui cià…

A rischio d’estinzione, i dialetti rispuntano e rivivono tra i banchi.

Un fenomeno in crescita, sebbene con esperienze pilota e a macchia di leopardo nell’Italia dalle infinite parlate.
Una trentina, segnala l’Unesco nel suo Atlante delle lingue a rischio, sono in pericolo o “vulnerabili” come il siciliano, il romagnolo e il griko, l’idioma greco che si usa nel Salento e in Calabria.

Alcune regioni, dall’Emilia alla Sicilia, ma anche Liguria e Veneto, hanno leggi sulla tutela e la valorizzazione dei dialetti.
Cavallo di battaglia della Lega, gli insegnanti prendono però le distanze: è solo una questione culturale. «Una lettura politica sarebbe sbagliata, questa è semplicemente un’esperienza linguistica», mette le mani avanti Mariangela Ceretta, la preside delle Fogazzaro dove 111 alunni stanno sperimentando da lunedì scorso le lezioni (sette ore) di dialetto veneto tra una materia e un’altra. Il viaggio è iniziato con Antenore, mitologico fondatore di Padova. Ma il programma prevede applicazioni pratiche, tra cui la comparazione con le lingue straniere.
«Il veneto funziona come l’inglese, il francese, il tedesco» spiega Alessandro Mocellin, l’insegnante di dialetto.
Un esempio? La formula francese je suis en train d’aller ricalca il veneto mi son drio andar. «Lessico italico, una fonetica di tipo iberico e la sintassi vicina al francese», sintetizza fiero Mocellin.

Non tutte le esperienze decollano.
«A Roma nonostante la legge regionale istituzioni e scuole non si muovono», dice Maurizio Marcelli, presidente dell’Accademia romanesca che tiene lezioni alle medie Milanesi, unico caso. «Parlare romanesco è considerata una cattiva abitudine, ma le radici locali non vanno tagliate: è la lingua dell’immediatezza, dietro c’è lo spirito romano da Giovenale a oggi, una filosofia di vita».
Il dibattito tra linguisti è aperto.

«La questione se e come insegnare i dialetti non è banale», osserva Franco Bampi, docente all’università di Genova, anima dell’Associazione “A Compagna” impegnata nel progetto, sostenuto con fondi regionali, che coinvolge 140 classi e oltre cento nonni-maestri.
Mauro Ferrando è uno di questi: «Insegniamo parole, filastrocche, ma anche a fare il pesto. Un incontro tra generazioni». E non solo. Stefano Rovinetti Brazzi, docente di greco e latino che al classico Galvani di Bologna ha aperto un corso pomeridiano di bolognese, ricorda la grande letteratura in dialetto del ‘900.
«Un sentiero su cui vale la pena di camminare — dice — Con i miei studenti parto dalla grammatica e arrivo ai testi letterari, per non lasciare morire una lingua che è stata vitale per secoli».

Dal corso al liceo sono partite ora altre iniziative, tra cui il bolognese insegnato dagli anziani che ancora lo parlano nelle scuole di Castel Maggiore, in provincia.
Rovinetti ribalta la retorica populista: «È un’esperienza inclusiva, apprezzata anche dalle famiglie immigrate. La lingua locale ti radica nella realtà in cui vivi. Ma non ti chiude lì dentro».

 

[Da la Repubblica del 7 marzo 2018]

 

Allegati

File .pdfLa Repubblica del 7 marzo 2018. Il dialetto fra i banchi di scuola [7]

Una poesia sul dialetto di Ignazio Buttitta (Bagheria, 1899 – 1997), in file pdfLingua e dialettu [8] (dialetto siciliano e italiano a fronte),