Ambiente e Natura

Le ricette “No chef” (3). Lu cazzemarre

di Rinaldo Fiore

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Il tempo
Il tempo ci ignora /e vola alla vita / a cui solo noi diamo senso…

 

Anche solo guardare come mamma faceva la pasta in casa era bello!
Per me, che ho vissuto in casa fino ai 28 anni, era naturale vedere come mamma preparava la pasta fatta in casa, anche perché le patate che lessava mi piacevano e appena pronte andavo ad assaggiarle e quindi, senza rendermene conto, guardavo la tavola (spianatoia) su cui lei preparava fettuccinecavatille e via dicendo…

Dopo aver infarinato la sfoglia, mamma l’arrotolava su se stessa facendo una specie di tubo piatto di 7-8 cm di larghezza e di lunghezza 50-70 cm come il diametro della sfoglia (la divideva in due se la considerava troppo grande), e poi iniziava a tagliare. Appoggiava i polpastrelli delle dita della mano a taglio sul bordo corto del tubo, un po’ obliquamente anche per vedere bene e col coltello, prendendo come riferimento le unghie delle dita (per non tagliarsi!) cominciava a tagliare ogni mezzo cm di larghezza e dopo un po’ allargava le fettuccine tagliate sulla parte libera del ripiano, infarinandole un pochino e così via, fino a che non aveva finito di tagliare tutto il tubo piatto.
Arrotolava la sfoglia, senza fare le strisce come per le sagne, in modo che le fettuccine venissero lunghe della misura giusta e intere: se la sfoglia era grande la tagliava in due per fare due tubolari, ad evitare che si appiccicassero gli strati.

Nel frattempo il classico sughetto di una volta con carne di gallina e o di agnello, o carne bovina, attualmente macinata o a pezzi, cotto a fuoco lento per una ora e mezza più o meno, assaggiando ogni tanto, stava sul fuoco per inondarci del suo profumo: era fatto con un po’ di lardo e/o strutto oppure con olio mischiato a lardo o strutto, una o più salsicce di carne, due o più cosce di pollo o gallina, una o più costolette di abbacchio, un pezzettino di peperone, pomodori pelati fatti a pezzi o un po’ di conserva essiccata, cipolla o aglio secondo il proprio piacere… E eccoci qua con un sugo ottimo come quello che tutte le mamme di una volta facevano in ogni parte d’Italia, suppergiù!
Una volta il sugo di carne (gallina o pollo e costatelle di abbacchio o tocchi di carne bovina) si faceva la domenica, mentre durante la settimana bastavano un po’ di salsicce e di lardo e strutto per prepararlo.

Il sughetto di pomodoro si fa con un fondo di olio in padella, mezzo (o più secondo necessità) barattolo di pomodori pelati a pezzetti, oppure quelli dell’orto se siete fortunati ad averli, uno spicchio d’aglio a pezzetti e in dieci minuti o meno è pronto, girandolo un due o tre volte per non farlo bruciare: se serve più cottura si assaggia e si capisce. Per farlo come una volta all’olio (meno olio in questo caso per la presenza del grasso diverso) si può aggiungere un po’ di strutto e un po’ di conserva essiccata; il basilico si può aggiungere un paio di minuti prima di spegnere il fuoco.

Per gli gnocchi la storia era ed è un po’ più complicata, ma ricordando che sono ammessi errori ed omissioni, si può sbagliare le prima volte
e, se nessuno rompe gli zibidei al/alla cuoco/a, può sempre riprovarci, ecco allora che anche gli gnocchi verranno bene: bisogna fare, fare e riprovare senza vergognarsi di sbagliare!

Mia madre ci ha sempre raccontato di quando, appena sposata, a 17 anni, volle preparare un piatto importante allo sposo, mio futuro padre, e si imbarcò in una operazione di cucina difficile, senza aver sentito prima nonna: mise a cuocere in padella “lu cazzemarre”, una specie di involtino grande, fatto con le budella di agnello (?), una vera e propria leccornia per noi abruzzesi, solo che l’involtino non si cuoceva mai e alla fine ci vollero 12 ore per la cottura, un tempo esagerato!

In effetti la sorpresa fece sorridere papà… mia madre l’aveva comprato dal macellaio senza neanche conoscerne il nome e aveva solo chiesto indicazioni sommarie per la preparazione.

Qualche anno fa passeggiando per le vie di Agnone, in procinto di tornare a Roma, vidi appeso nella vetrina di un macellaio una specie di involtino con un nome che non mi diceva niente ma, incuriosito e pescando nella memoria un ricordo, chiesi al macellaio: – Ma quello è “lu cazzemarre”?
– Sì! – rispose il macellaio sorridendo! E me ne tornai a passeggiare felice di aver ricordato di che si trattasse!

Nota (a cura della Redazione)
Lu cazzemarre – Diffuso in tutto l’alto Sannio, con nomi diversi: magliatiello, abbut, lo si ritrova con caratteristiche simili anche in Puglia ed in Basilicata, regioni alquanto simili in fatto di abitudini alimentari, ovviamente con altri nomi: abbuoto, torcinello, mazzette, treccetelle.

[Le ricette “No chef” (3)Continua]

5 Comments

5 Comments

  1. giovanni hausmann

    12 Febbraio 2018 at 15:16

    Giusto per notizia di cronaca lu cazzemarre in Puglia assume diversi nomi a seconda della zona. Il torciniello è tipico del barese ed è piccolo, insomma una specie di fiocchetto, e fatto prevalentemente con polmone e milza, mentre nell’entroterra delle Murge si chiama gnumeridde ed è più lungo e fatto con diverse interiora. Infine nell’entroterra brindisino si chiama marretto ed assomiglia al cazzemarre. In tutti i casi viene sempre cotto alla brace o nel “fornello”, una specie di forno con il fuoco di carbone di legna.
    Buon appetito!

  2. Rinaldo Fiore

    12 Febbraio 2018 at 16:40

    Nei cinquant’anni circa di vita romana mamma non ci ha mai cucinato “lu cazzemarre” memore della prima difficile esperienza giovanile: naturalmente il nome di questo prelibato piatto dice tutto e dalla prima sua fotografia non richiede ulteriori delucidazioni.
    Ogni tanto, quando il pane secco si accumulava, ben conservato, evitando che ammuffisse, mamma faceva il “pan cotto” che oggi sa di umiltà, di terra buona e di sudore: nulla si buttava a quei tempi, quando vivevo al mio paese, nulla e tutto aveva valore e l’odore e il sapore di quel piatto semplice lo sento nella mia anima…
    Il pan cotto mamma l’ha riportato anche a Roma e noi figli ne abbiamo goduto!
    Pane secco a volontà immerso in giusta quantità d’acqua valutabile a vista, una costa di sedano, uno o due spicchi d’aglio, due bei cucchiai d’olio, un pizzico di sale e il fuoco farà il resto: conviene far riscaldare il tutto prima di metterci il pane, non so perché ma lascio giudicare alla incolpevole memoria. Dopo un quarto d’ora dalla bollitura il pan cotto è pronto e, d’altra parte, il profumo che viene dalla pentola dice tutto… e mangiatene tutti, con un gesto che somiglia ancora a quello dei “mangiatori di patate!”.

  3. Luisa Guarino

    12 Febbraio 2018 at 17:49

    Il delizioso involtino di cui parla Rinaldo era conosciuto e diffuso anche a Ponza, o almeno lo era nella mia famiglia, che ha espresso un macellaio doc come Zio Tatonno, fratello di mio padre. Quella prelibatezza veniva cotta sulla brace. L’ultima volta che l’ho mangiata è stata preparata da mia cugina Maria Guarino (figlia di Zio Tatonno), scomparsa da poco più di un anno.
    Per la cronaca tanti tanti anni fa una pietanza molto simile l’ho assaggiata in Sudan, dove la popolazione la consuma per la colazione di metà mattina, intorno alle 9: il cosiddetto “fatur” (piu’ o meno). E a proposito di Zio Tatonno ricordo che quando ero bambina preparava anche un insaccato molto particolare, riservato ad autentici gourmand, credo con carne e intestino di maiale. Veniva chiamato “annoglia” e aveva un sapore molto forte e pepato. Una cosa simile oggi mi sembra l’andouille o andouillette francese, che pero’ si consuma cotta.

  4. giovanni hausmann

    13 Febbraio 2018 at 17:39

    Perdonatemi, ma se dobbiamo parlare di cucina riciclata come il pancotto non posso esimermi dal proporvi le ineguagliate polpette di mia madre (ferrarese di nascita) per le quali richiederei il riconoscimento dell’UNESCO.
    Prima di tutto la carne, che proveniva dagli avanzi dell’arrosto conservati gelosamente in frigo; poi la tritatura fatta rigorosamente a mano con il tritacarne a manovella che dava alla carne una consistenza un pò filacciosa (forse per la non giovane età dello strumento) infine il tocco di classe: la besciamella un po’ consistente, che rendeva l’impasto morbido e cremoso.
    L’impasto prima di essere confezionato a pallette di media dimensione passava un po’ di tempo in freezer per rassodare pur mantenendo lavorabile la pasta; le pallette passavano poi nel pane grattugiato (anch’esso casalingo: tostato al forno e poi passato nello stesso tritacarne) e senza passarle nell’uovo, venivano messe in padella con olio a mezz’altezza per cui una volta pronte avevano una doppia doratura sopra e sotto ed una fascia bianca a metà com un krapfen austriaco. Una vera delizia del palato!

  5. Silverio Guarino

    14 Febbraio 2018 at 09:24

    Sapori dimenticati (da poco).
    Che mi ricordi, lo chiamavamo stentiniell’ o ‘mbagliatiell’. Cercansi testimonianze al riguardo.

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