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Storie di madri. (20). Mamma, il suo male, il nostro amore

segnalato da Sandro Russo
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Dalla rubrica giornaliera “Invece Concita” tenuta giornalmente da Concita De Gregorio su la Repubblica, riprendiamo la commossa testimonianza di una lettrice

Grazie a Letizia Dimartino, che parla di sua madre

«Mia madre portava cappotti bianchi e colli di pelliccia. Guanti di pelle rossa e sciarpe di velluto. Aveva una banda di capelli neri che aggiustava con le sue dita lunghissime. Mani sul viso come farfalle. Io odoravo le sue giacche di nascosto, la mattina prima che ci dividessimo per andare a scuola. Il profumo Presage e la cipria Coty. Era il modo per distaccarmi da quel mio amore. La paura mi prendeva lenta nelle ore successive, rivedevo i suoi denti e il loro biancore, le labbra scostate, di fiamma. Teneva il rossetto nella sua borsa, uno specchietto e il pettine d’oro. Un fazzoletto bianco stiratissimo, la foto di me bambina in posa vezzosa.
Partivamo io e lei. Prendevamo treni per andare a Milano, la notte trascorsa insieme in cuccette strette dai sedili unti. Lei mi teneva la mano. Io non la lasciavo mai. Era il primo amore. Era il tutto della mia vita breve. Accarezzavo le sue braccia scoperte, lei cantava dondolando la testa, gli occhi leggeri. La pelle bruna di siciliana, di chi ha visto il mare tutti i giorni. Passeggiavamo per la città, sostavamo alle vetrine, tornavamo lentamente a casa. Io vicina a lei. Faceva la maestra e ne era felice. Andavo a trovarla. Camminava alta nei corridoi della scuola, fendendo aria e cuori di bimbi. La attendevo nei giorni di pioggia: stringeva il suo cappotto, mi tendeva la mano e così strette andavamo.

Quando si ammalò era primavera e si fece estate presto. La accompagnavo negli ospedali di grandi città lontane. La lasciavo lì, lei consenziente e abbattuta. Dimenticando il mare e la casa. Milano nelle sere d’autunno, le sue strade e i negozi le insegne e i bar. Messina e i suoi viali, la costa illuminata e la guerra. Si ammalò mentre era ancora felice.
Stavamo nei treni e dormiva esausta, non pensava ai medici che avremmo incontrato, alle cure da fare. Guardavamo dai finestrini la Sicilia che scompariva. Sfogliavamo giornali. Portava un foulard al collo. Le medicine non servivano. Gli interventi chirurgici diventarono troppi. Stavamo insieme. Sorridevamo. Ricordavamo. Aveva forti nostalgie, cantava e dimenticava il brutto della malattia. Io continuavo a odorare i suoi cappotti. Era lei. Era l’infanzia.

Giocava con mia figlia dandole piccoli baci sulla fronte, ogni giorno trascorso con lei, con sguardi delicati. Era un amore, il nostro, che non si divideva. Stava in casa e non se ne lamentava, guardava dalla finestra la città distesa e pensava alla sua lontana, al mare dello Stretto. L’ultima malattia fu devastante, vergognosa. Le tolse il sorriso. Le badanti si susseguivano, le necessità aumentavano. Parlavamo sedute sul divano preferito e immaginavamo un futuro guardando i vestiti appesi che mai più avrebbe indossato.
Perse la memoria piano e poi perse me. E noi. Gridava sul suo letto. Le piaghe nere di liquirizia e pece. Le cure e il nulla. I piedi contorti, la pelle che moriva, lei per prima. La sofferenza era stata lunga, troppi anni. Io la attendevo lo stesso, come nei giorni di pioggia fuori la scuola. Morì in un giorno di maggio, facilmente. Con pochi respiri. Ero con lei. Io sola nella stanza in quel momento. Io e lei».

[Da la Repubblica del 18 gennaio 2018]