Ambiente e Natura

Il naufragio del San Silverio del 1928 (2). La gente del paese

Da un racconto di Giuliano Deiana, pubblicato su www.olbia.it e segnalato da Paolo Iannuccelli

 

“E voi zio Giova’, cosa dite?”, aveva chiesto quel mattino, in via La Marmora, Francesco a ziu Juanne Schiria. Lo aveva chiesto prima che il “San Silverio”, quel pomeriggio, riprendesse un’altra volta il mare col suo motore ripulito.
Le reti erano state già state ordinate al loro posto ed anche le cassette di legno che dovevano contenere il pesce. I fusti di nafta imbarcati e la cambusa era stata riempita con quanto si poteva. Il grecale scendeva prepotente accumulando sul mare e sui tetti dense nuvole scure.
“E voi zio Giova’, cosa dite?”, aveva chiesto.
 “Dico che non è tempo né per i santi, né per i morti. Dico che non è tempo d’uscire al largo con una barca come questa”.
“Dite bene voi! Voi non ne avete bisogno. Voi navigate su piroscafi grandi e guadagnate. A casa, i miei sette figli aspettano. I vostri, forse, sono già sazi!”.
 Così aveva detto Francesco, un algherese che quei “figli forse già sazi” conosceva bene perché erano dirimpettai dei suoi in via La Marmora.
E zio Juanne Schiria, dai baffi ispidi, macchinista per favore del “San Silverio”, imbronciato nell’espressione ma tenero nel cuore, aveva taciuto e aveva accettato di sostituire, per quell’uscita, il suo collega ammalato che, quel giorno, non poteva imbarcarsi.
Aveva accettato anche se il grecale soffiava forte, anche se quella barca era fatta quasi solo di fasciame scolorito e di ruggine.
Aveva accettato perché le macchine le aveva rimesse a posto lui e, un po’, fors’anche, perché contava sull’aiuto celeste di San Silverio la cui statua, due anni prima e con la stessa barca, aveva portato a Terranova da Ponza cedendo alle insistenze del cavalier Piro che in quel tempo era il proprietario del peschereccio.

C’era stata una festa grande a Terranova, quel giorno e ad essa aveva preso parte, con identica devozione, tutto il popolo senza distinzione di provenienza. Monsignore, nei suoi paramenti più belli, aveva benedetto il simulacro del santo e lo aveva portato in processione per tutte le strade accompagnato dalle autorità e dalla folla orante e festante.
Aveva fiducia nel suo motore, ziu Juanne Schiria, ma, certo, senza qualcosa che lo tenesse a galla, quel motore, per quanto cantasse e girasse bene, sarebbe colato in bocca ai pesci. Quello scafo era il guaio maggiore e il grecale di quel giorno rendeva il guaio ancora più grosso.
E allora, quando non hai più fiducia nella barca che ti deve portare per mare, tu, se sei pescatore o marinaio, è meglio che con quella barca non esca più. Fanne legna da mettere al fuoco nelle brutte serate d’inverno.
Tutto questo voleva dire il silenzio di ziu Juanne Schiria.
Ma le reti erano state armate e al loro posto erano le cassette e là erano anche i fusti di nafta e il motore era lucente d’olio. Ziu Juanne aveva dato un bacio a ciascuna delle cinque figlie e, salutando Marianna, sua moglie, le aveva detto:“Quando viene Riccheddhu, digli che mi raggiunga al porto. Intanto non salperemo tanto presto”.
 “Ma uscite con questo tempo?”, aveva ribattuto la moglie.
“Non ti preoccupare”, le aveva risposto, “tanto a casa ci sei tu che preghi!”

Zia Marianna, nonostante fosse una donna pia e devota, doveva averlo guardato con poco convincimento perché lui aveva insistito
 “…e poi, lo sai che se non basti tu c’è Lui che mi protegge meglio d’un salvagente”. E così dicendo, aveva dato due o tre colpetti d’intesa alla sua tasca dei pantaloni, lì dove teneva il portafoglio con dentro pochi soldi e un piccolo Crocifisso di stagno. Poi aveva sussurrato perché la sua donna non lo sentisse:
“Questa notte è la nostra! Se non mi aiuta Lui, questa è la nostra notte”. Poi sorridendo per mettere la cosa in burla, aveva aggiunto: “Se io muoio in mare, vuol dire che ho un impedimento grande” e con Pappagalletto che gli trotterellava dietro, risalì per via La Marmora diretto al porto.

Il pensiero di zia Marianna era andato d’istinto a Richeddhu, figlio di primo letto di suo marito ma che lei amava come le sue figlie.

Era uomo di mare anche lui, ma con poco convincimento; più per obbligo familiare che per naturale istinto.
Il servizio di leva prestato sui sommergibili della Regia Marina da cui era stato congedato solo da una settimana, gli aveva messo addosso una specie di fobia per l’acqua salata.
Eppoi, lui era più portato alla meditazione, alla poesia che non alla vita di bordo.
Raccontavano che una volta lui si fosse legato all’albero maestro del bastimento dello zio Pedru Schiria perché quel legno, per i suoi gusti, ballava troppo.
Di certo non aveva preso dal padre che in acqua ci stava più a suo agio che non sulle strade acciottolate del suo paese.
Tanto bene ci stava, anche sotto il pelo dell’acqua, che ziu Pedru, provetto palombaro, si fregava le mani per la contentezza quando sapeva che il fratello era in paese, sbarcato da qualche transatlantico, per chiedergli aiuto quando, in un’operazione di recupero, aveva bisogno di un occhio esperto, di uno che sapesse infilarsi nel boccaporto di un qualche bastimento affondato da recuperare senza avere l’impedimento della tuta, dello scafandro e degli scarponi di piombo, ma solo con la pelle che il Padreterno gli aveva dato e, al più, con un paio di pantaloncini se era estate, o di mutandoni lunghi e maglia di lana se l’acqua era fredda.

Zia Marianna aveva appena ricacciato indietro quel cattivo pensiero che s’era affacciato alla sua mente stringendole il cuore e aveva iniziato a organizzare i lavori pomeridiani di tutte le sue figlie quando Richeddhu era entrato in cucina.
“Non l’hai incontrato tuo babbo?”
“No, ero da zia Pietrina. Non l’ho visto. Dov’è?”
“E’ sceso al porto. Ha detto di raggiungerlo.”
“Allora hanno deciso d’uscire. Io vado.”
“Ma dove vai? Non vedi che è già tardi? Saranno già partiti, ormai.”
“E io vado lo stesso. Ciao zia Maria’.”

Così Richeddhu se n’era andato a falcate più lunghe delle folate di grecale che si intrufolavano nelle strade di Terranova quel martedì pomeriggio 27 novembre del 1928.
Il “San Silverio” era ancora agli ormeggi, lì alla Punta. Si era imbarcato e aveva salutato tutti in coperta e, in sala macchine, il padre e anche Pappagalletto che gli aveva fatto le solite feste.
“Ciao, ba’.”
“Oh Ricche’, venuto sei?!”
“Eia.”

Poi padron Pieroni, ’u baccan’, aveva detto:
“Andiamo!”
Erano stati mollati gli ormeggi e ognuno aveva iniziato a fare i propri lavori guardando in silenzio lontano.

A Terranova s’era parlato del “San Silverio” che avrebbe dovuto salpare. E dal porto lo si era visto trascinarsi sulle onde, con pena. E negli occhi di quelli che sanno e conoscono il mare, rapido era passato uno sguardo pieno d’ansia.
Poi, ciascuno, aveva riabbassato il capo e aveva ripreso la sua occupazione di sempre.
Sulla Punta, all’estremità del molo, senza gesti, zia Caterina osservava. Sul capo, lo scialle di lana avvolto al collo e sulle spalle. Scialle ricco si frange che il vento frustava e di pieghe. Il suo sguardo era vuoto ed assente. Inumano in quell’ora del pomeriggio.
“Ciao ma’!”, le aveva detto Angelo dal ciuffo spiovente sul naso. Impettito in quel suo maglione nero di lana grezza, stretto e lungo come un budello di bue.
“Domani, quando torniamo, a cena ti porto un pesce grande che non ne hai mai visto!”. Zia Caterina aveva guardato quel viso innocente. Non si era mossa.
Aveva atteso che il “San Silverio” scomparisse. Poi era tornata a camminare lungo i viottoli silenziosi, fatti di ombre grandi senza risalto.


In quell’angolo, addossato ai muri bianchi di piccole case, grigia nel suo granito, la chiesa di San Paolo, col campanile alto su Terranova, la sua cupola e le campane sonore che a sentirle ti pareva che fosse sempre domenica, era lì, rifugio sicuro per tutti. Anche per quelli che, bestemmiando, pregavano Dio perché i figli avessero, ogni giorno, pane abbondante e sicuro.
Anche Richeddhu, quel sabato pomeriggio, salpando con quella barca non sua, aveva pensato alle campane che Monsignore domani avrebbe fatto suonare per chiamare alla Messa.
Come quella domenica, lontana nel tempo, quella domenica di Pasqua, quando, in licenza, a casa sua, aveva respirato a pieni polmoni l’aria del sole sui campi e sui tetti del suo paese, invece di quell’odiosa miscela di gas in scatola con cui era costretto ad asfissiarsi, ogni giorno di naja, dentro la pancia del sommergibile.
A quella Pasqua d’aprile, pensava Rico mentre il “San Silverio” usciva dal porto. A quella Pasqua coi campi verdi, le pratoline bianche e i balli sonori. Ricordava il ritmo dei piedi battuti sull’erba calpestata, le languide parole d’amore sussurrate all’orecchio di ragazze timide, di nascosto dai grandi che stavano seduti, a capo coperto, a guardare i balli dei giovani,
Nella cappella del Rosario, alla prima Messa mattutina il giorno dopo la partenza del “San Silverio”, Monsignor Cimino aveva celebrato il suo offizio sacro sussurrando parole rituali comprensibili solo ai santi fermi nella loro immobilità stupefatta con occhi lucidi di cristallo.
La luce era poca e il vento era forte, e rumoreggiava furente intorno al campanile facendo vibrare, d’un sottile brivido, le vecchie campane. Il silenzio interno viveva ai palpiti rapidi di qualche candela e i velati movimenti delle donne interrompevano la solenne compostezza di Monsignore che pregava avvolto nei suoi paramenti più umili.
I santi, tutti quelli presenti nella chiesa sui loro altari, accettavano indifferenti il brusio delle preghiere e il rumoreggiare del vento e del mare in lontananza.
Oggi la chiesa era un rifugio. Bisognava pregare per quelli che non c’erano.

Zia Marianna guardò, là in fondo, dove, in un piccolo altare, troneggiava, onnipotente e noncurante, un San Silverio barbuto. Una piccola candela gettava ombre sul suo viso. Poco più in là, quasi vergognosa di stare al cospetto di un santo, Rosaria guardava il pavimento incrociando le mani sul grembo.

Quella Pasqua d’aprile c’era anche lei. A Cabu Abbas si era, e zia Marianna l’aveva osservata con uno sguardo affettuoso mentre, con occhi ridenti, ballava con Richeddhu che le sussurrava qualcosa di tenero.
Rosaria guardò ancora il santo, con aria di sfida più che di invocazione.
La candela era là, davanti a Lui e quella piccola fiamma certamente non poteva non piacere a San Silverio.
Zia Marianna non si mosse. Si segnò la fronte, le spalle e il petto con un movimento ampio e lento del braccio. Quasi solenne o disperato.
“Ite, missa est”, disse Monsignore.
“Deo gratias”, rispose la Chiesa.
Rosaria uscì. E uscì anche zia Marianna insieme alle altre donne che avevano assistito al rito.
Sulle colline, viola e lontane nella luce spenta di quel mattino, remoti bisbigliavano i primi tuoni sordi e il vento, insistente, continuava a soffiare con furia.
E Tavolara, giù in mare, tra le prospettive dei tetti spioventi dominati dalla tozza mole dello scolastico grigio, non si vedeva ormai più.

[Il naufragio del San Silverio del 1928 (2) – Continua]
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