Ambiente e Natura

Tempo di vendemmia, tempo di ricordi…

di Enzo Di Fazio

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Zi’ Francische, quando eravamo chiamati a vendemmiare, era esigente.
Lui, che si era spezzato la schiena in America nei lunghi anni di lavoro fatto di pale e piccone a scavare tracciati per viadotti e fondamenta per grattacieli, dava un senso agli orari e agli impegni che uno si assumeva e ne pretendeva il rispetto. Si rabbuiava se arrivavi tardi ad un appuntamento e dovevi lavorare sodo per riguadagnare il credito perduto.
Ma sapeva anche riconoscere il valore della fatica e gratificarla, se dovuto, con una maggiore ricompensa, spesso costituita da qualche dollaro che non gli mancava mai.

zio Francesco

Insomma era un uomo severo ma giusto sul cui viso dominato da un grosso paio di baffi riuscivi, se ne eri capace, anche a scorgere, nei rari momenti in cui sorrideva, la tenerezza di un bambino. Il che, come segnale di gratitudine, accadeva spesso proprio in occasione delle vendemmie, quelle epiche del monte Guardia degli anni 50/60.

Le squadre che partecipavano alle vendemmie erano composte da 10/15 persone, in genere tutti parenti, e non era difficile metterle insieme visto che a quei tempi molte erano le famiglie numerose.
Chi partecipava ad una vendemmia riceveva restituito l’aiuto quando si apprestava a fare la propria.
Io ne ho vissute tante, avendo cominciato fin da ragazzino con il compito di tagliare i grappoli e metterli nei canestri di raccolta, il primo passo per entrare, quasi giocando, nel mondo degli adulti.

Quando si vendemmiava sulla Guardia. Le donne chiamate a raccolta e zio Francesco

Allora il mio ruolo da maschio era marginale, simile a quello delle donne deputate a fare la stessa cosa, ma avevo voglia di uscire dal territorio della fanciullezza e fare il lavoro dei grandi come caricarmi sulle spalle un cofano pieno d’uva e portarlo fino al palmento o guidare l’asino per il trasporto dell’uva dal monte Guardia alla cantina degli Scotti.

Sono cresciuto seguendo gli esempi degli adulti, osservando per ore attentamente come lavoravano e quelle pratiche contadine che conosco le ho apprese proprio da zio Francesco, come l’arte della scogna c’u muille,  di cui si può leggere nell’articolo “Quando gli Scotti ci appartenevano“.
Di poche parole ma paziente, zio Francesco si limitava a dirmi: Enzu’ guarde cumme facce ie e ‘mpare.. e, quanne diviente gruosse, ‘u saprai fa’ pure tu.
Anno dopo anno, a dispetto di una statura avara fin dall’infanzia, il torace, le gambe e le braccia diventavano sempre più toniche e muscolose, così come il timbro della voce andava assumendo un’impostazione più decisa perdendo via via quelle impurità proprie dell’età adolescenziale.
Zio Francesco, poi, non era alto e intorno ai sedici anni ero già arrivato alla sua altezza in modo da poterlo guardare negli occhi.
Sentivo, per il bene che mi voleva, di potergli parlare liberamente; non avevo quindi difficoltà a propormi, quando arrivava il tempo di vendemmiare, per dei ruoli più importanti. Lo scopo era anche quello di guadagnare qualcosa e zio pagava bene.

Venne così l’anno in cui mi affidò Carolina, un’asina che alloggiava in una comoda grotta sotto casa, bell’asciutta e con una mangiatoia sempre piena di fieno. L’occasione fu propiziata dalla partenza per l’America del figlio Pasquale che, stanco di fare l’agricoltore e voglioso di trovare fortuna altrove, raggiunse il fratello maggiore nel Bronx, lì già da alcuni anni.
Carolina era un’asina quieta, abituata al sentiero del monte Guardia che percorreva  durante tutto l’anno per portare di norma legna o cespi di legumi e solo nel periodo della vendemmia assaporava la vera fatica con il peso d’i tenielle d’uva.
Da ragazzino vi ero andato anche in groppa, ma solo sul pianoro  perchè zio Francesco riteneva che l’animale non dovesse affaticarsi inutilmente portando pesi impropri lungo la salita.

L’asina Carolina e zia Gelsomina davanti la casa degli Scotti

Carolina, però,  non bastava per trasportare giù alla cantina degli Scotti tutta l’uva che c’era nelle catene sparse tra il Monte Guardia e le terre vicine dai nomi strani come  avanne Palmarola, dinte ‘u Scutielle, ‘ncoppe i Guarini, avanne ‘u Cavone, ncoppe ‘u Cecate e via dicendo. Soprattutto quando capitavano le buone annate.
Così si ricorreva a Garibaldi, l’asino di Tatonne ‘i Semiscotte. In due, facendo 5 viaggi al giorno, nel giro di 3, massimo 4 giorni, avremmo trasportato tutta l’uva esistente nei terreni più lontani.

Tatonne era stato mio compagno di banco alle elementari e di giochi di strada fin quando non ho lasciato Ponza per motivi di studio.
Ancora oggi quando ci incontriamo ci piace ricordare quel periodo e l’esperienza vissuta.

In quegli anni tutto il costone del Monte Guardia era coltivato con le classiche parracine belle integre e i filari di viti ben curati e durante le vendemmie tutta la zona si ravvivava grazie alla presenza di tanta gente.

I viaggi, con i due ciuchi, li affrontavamo insieme sostenuti dall’insegnamento del vecchio proverbio che “aver compagno al duol scema la pena”.
Avevamo imparato dopo i primi viaggi che era preferibile tenere avanti Carolina sia perché Garibaldi, da buon maschio, se era davanti spesso si girava e si fermava per guardare Carolina sia perché Carolina avanti, mal sopportando la vicinanza di Garibaldi, camminava più spedita.
Avveniva sempre così e per quello che ricordo non c’è stato mai feeling tra i due; evidentemente era Carolina che non si prestava a ricoprire il ruolo che nella storia era stato di Anita.

Fare i viaggi insieme aveva anche il pregio di alleggerire la fatica; durante il tragitto c’era il tempo per parlare di quello che facevamo, dell’isola che stava cambiando rapidamente con l’arrivo del turismo, delle prime cotte che cominciavano a scombussolarci, dei progetti per il futuro che ci facevano fantasticare.

Si cominciava all’alba quando il gallo ci dava il buongiorno col suo canto e si finiva al calar del sole quando, scendendo dalla Guardia per l’ultimo viaggio, il cielo a Chiaia di luna si tingeva di rosa. In genere si parlava poco a quell’ora… un po’ per la stanchezza un po’ perché era bello vivere in silenzio il tramonto come momento di sintesi della giornata, momento della conta delle fatiche e preludio al piacere del riposo.

E questo si ripeteva fin quando non si era portato a valle l’ultimo cofano dei grappoli dorati.

In mezzo ad ogni giornata, alle 10,00, c’era la tradizionale marenne (leggi qui), tipica delle vendemmie che, noi conduttori di somari, avevamo il privilegio di consumare, preparata da zia Gelsomina, al fresco nella bella curteglia della casa di zio Francesco.
A fine vendemmia un grande banchetto tutti insieme, con gnocchi al sugo, polpette di carne, coniglio alla cacciatora, parmigiana di melanzane, immense insalate di patate bollite e le immancabili tortanelle.


Avevamo cominciato con le membra del corpo integre e col colore del viso appena abbronzato; rientravamo nei nostri panni con il volto bruciato dal sole, le piaghe alle spalle per i tanti tenielle caricati e scaricati e i calli ai piedi per i chilometri percorsi lungo il sentiero per il monte Guardia.
“Stanchi ma felici” d’esserci meritato la pacca sulla spalla di zio Francesco, la sua stima cui tenevamo tanto e il suo compenso.

La vendemmia! Un rito antico fatto di momenti di grande solidarietà e condivisione che l’isola con i suoi profumi e i suoi colori ancora oggi riesce ad arricchire di poesia.

2 Comments

2 Comments

  1. Maria Assunta Di Meglio

    22 Settembre 2017 at 18:52

    Mi ha fatto molto piacere leggere l’articolo di Enzo. A molte di quelle vendemmie c’ero anch’io ma sicuramente lui non si ricorda più di Maria Assunta la fornese.Comunque vi abbraccio tutti e vi ringrazio per le foto che pubblicate

  2. Enzo Di Fazio

    22 Settembre 2017 at 22:17

    Maria Assunta la fornese? Non ne sono certo ma ci provo. C’era spesso in quelle vendemmie una bella ragazza filiforme con i capelli color castano chiaro che ricordo sempre sorridente. Mi pare fosse anche nipote o comunque imparentata con zia Gelsomina che era originaria di Le Forna.
    So che, ancora giovane, andò via da Ponza per sistemarsi con la famiglia – mi pare – in Toscana, forse all’isola d’Elba o all’isola di Capraia o a Piombino. Ricordo anche di alcuni bagni fatti insieme a Frontone o alla Marinella dei morti che raggiungevamo con la barca di zio Silverio (Sciabolone).
    E il nome era proprio Maria Assunta. Sei tu?

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