Ambiente e Natura

Bolle il mosto…

di Francesco De Luca

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Sul fuoco bolle il mosto! L’odore sta invadendo la casa. E’ dolciastro e appiccicaticcio. Si insinua in ogni ambiente. Invade, e quando pensi che sia fastidioso e chiudi le porte è ormai tardi. Si è insediato nei vani e ci vorrà aria corrente fra le finestre aperte per stanarlo e disperderlo.

Molliccio, infido, si spande in modo graduale e costante. E bolle, bolle il mosto. Per ore. La pentola mugugna, e si assottiglia il livello del liquido. Antonietta non se ne cura. Il mosto deve cuocersi. Deve diventare vino cotto.

L’isola sta riprendendo il volto suo proprio. Ora, che il vento a raffiche urla e agita il mare, dopo l’estate della quiete, dell’invasione turistica, della profanazione. Ieri la pioggia ha lavato la terra e il contadino ha deciso di vendemmiare.

L’uva, bianca, ambrata, pulita, è tagliata dai tralci. C’era gente stamane al Fieno a presenziare al rito della vendemmia.

Liberato è il sacerdote officiante, e gli accoliti ubbidiscono. Il palmento pochi anni fa era l’altare dove i fedeli a piedi nudi pigiavano in onore di Bacco, oggi è soltanto addobbo. La macinazione dei grappoli la compie la macchina. Tuttavia è mosto quello che esce. Il primo mosto. Quello da cui sortirà il vino cotto.

L’odore della bollitura ha invaso anche l’aia. Dove intorno alla grande tavolata siedono i lavoranti.

Antonietta ha cucinato ben cinque conigli. Sono molti gli uomini accorsi a dare una mano e il lavoro, si sa, smuove l’appetito. Ci sono facce consuete ma anche visi di persone sconosciute, arrivate lì perché hanno sentito che la vendemmia è permeata d’allegria. Quella schietta, quella popolare, con battute risapute e altre nuove, ispirate dalle vicende paesane attuali. Ma soprattutto è una allegria smossa dal vino.

Ah… il vino, come è capace di togliere il broncio, di sopire gli affanni, di aprire l’animo alla leggerezza!

In verità il vino di Liberato tanto leggero non è. Lo si scopre dopo tre-quattro bicchieri. Boccata dolciastra, sa di more, frizzante in modo lieve. Il primo bicchiere è d’assaggio, e poi… ognuno conta quelli che vuole o non si contano più.

Meno male che il venticello ha attenuato il sole. Un pensiero va ad un bagno ristoratore ma le coste del Fieno sono imbiancate dal mare di ponente-libeccio e sarebbe pericoloso affrontarlo.

Il mosto ancora bofonchia nella pentola. Se ne trae una ciotola per fare ’i turtanelle.
Cosa sono?
Antonietta sta preparando l’occorrente per ’i turtanelle. Anelli di farina impastata col mosto e messi a bollire in esso. Sono dolcetti che fanno parte del cerimoniale della vendemmia, il cui godimento è limitato a quella circostanza. Quando si fa il ‘vino cotto’ si fanno pure ’i turtanelle. Inderogabilmente. Lo impone la storia dei ‘coloni’ ponzesi.

Che sapore hanno? Un sapore inusuale. Antico. Popolare. Perché i Ponzesi si inventavano da tutto quanto era a disposizione pietanze e cibi sfiziosi con i quali allietare la loro vita di lavoro. Anzi no… di assoggettamento al lavoro.

Così anche la vendemmia la ammantavano di sapori, di consuetudini, di pratiche che potessero rendere quel momento in cui dalla terra si trae il succo della fatica, più gradevole.

Quest’anno, nonostante la siccità dei mesi estivi, le viti sono cariche di pigne. Nel deporle nei cesti le mani si inzaccherano e le mosche assediano. Insistenti e fastidiose. Le cacci e ritornano, dispettose. “Vavattenne …” – sbotta Veruccio e fa gesti con le mani. Inutilmente. Le mosche bivaccano intorno ai cesti ripieni d’uva. Pure sui Conti si sta vendemmiando e a Le Forna su Piana Incenso il mosto sta già fermentando nella cantina.

Sull’isola rimbalzano le chiacchiere. “Al Fieno si è avuta una produzione maggiore. Così sui Conti e pure sugli Scotti ”. Sono consolanti queste dicerie, e incitano a brindare. Il vino è buono ma il nuovo sarà migliore. Le viti, a causa della mancanza di pioggia, hanno tratto dalla terra il meglio.

’I turtanelle fumano nel piatto. Passano i familiari e ne prendono, passano pure i lavoranti. La nipote di Antonietta fa la schizzinosa. Abituata agli snack dal dolce eccessivo non apprezza questi dolcetti il cui sapore è ibrido, accennato. C’è il divario che passa fra l’abbondanza e la carestia, fra l’obesità e la magrezza.

Qualcuno alza la voce. Nell’aia, stravaccato sotto una ginestra Veruccio mostra i segni di ciò che il vino ingurgitato provoca. In verità non è stato soltanto il vino a produrre l’alterazione. Poco prima si è data la stura allo spumante (’a sfumante). Quello ponzese, quello che devi stare attento a togliere il tappo, quello dolcissimo. “Pure io… pure io… lo voglio pure io…” – si intromette la nipote di Antonietta.
È una bambina ma la zia non è severa. L’alcol fa male ai piccoli ma nello spumante ponzese ce n’è pochissimo. C’è tanto frizzantino perché la fermentazione nel mosto è stata bloccata dall’imbottigliamento, e c’è tanto dolce.

Lo spumante di Liberato di solito si ambisce tanto è buono. E nel gradirlo si eccede e l’eccesso annebbia i riflessi e affievolisce le forze.

Veruccio dopo la sfuriata sta immobile. Sembra appisolato e lo è per davvero. Avverte tutti che occorre darsi una pausa prima di lasciare la cantina. Due donne si allontanano per un sentiero, un altro ha gli occhi chiusi sembrando pensieroso, Antonietta con l’amica sparecchia. In alto un gruccione fa sentire il suo grido. Ritorna al sud, dopo l’ubriacatura della bella stagione.

Nel cielo il sole volge al tramonto. Si prende la via per il ritorno a casa. Si tolgono i sassolini nelle scarpe, lo zaino in spalla, il bastone appoggiato viene ripreso. La nipote di Antonietta saltella nel sentiero pietroso. Solo lei.

Ormai lontani dalla sede della cerimonia, sul sentiero che degrada verso le case, ancora sembra di essere inseguiti dall’odore del mosto che bolle.
“No… non può essere… E’ il naso che è intriso di quell’effluvio… e sembra che ancora bolla sul fuoco”.

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