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Storie di Madri (11). Molly, la vita di una bambina

segnalato dalla Redazione

 

Da sempre, quando incontro una bella storia la metto da parte. Così è successo anche con un vecchio numero de “La Domenica di Repubblica” (dell’8 maggio 2005).
È una lunga intervista di Concita De Gregorio alla madre di Molly McIntyre, una bambina molto, molto speciale…
Mi è venuta in mente questa storia poco tempo fa, alla visione di un bel film di “fantasy”, tra passato e futuro, di Denis Villeneuve: Arrival (2016), in cui è adombrata una vicenda simile
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S. R.

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Mamma coraggio
“Quando è nata mia figlia, i medici mi hanno detto che non sarebbe uscita dall’ospedale, sarebbe morta subito. Io l’ho portata a casa e siamo state insieme quattordici anni”: Lesley McIntyre comincia così a parlare di sé e della sua piccola. Una storia meravigliosa e terribile che lei ha raccontato per fotografie.

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Molly, la vita di una bambina
di Concita De Gregorio

Londra.
Questa è la storia meravigliosa e terribile di Molly, una bambina nata per non vivere nemmeno qualche giorno — avevano detto i medici, perché qualcosa nel suo cor­po consumava i muscoli e la vita — e vissuta quattordici anni, invece, quattordici lunghissimi anni in cui si è vestita da bal­lerina ed è andata dal parrucchiere coi rolli in testa e con la rivista Hallo in mano, ha fatto da damigella al matrimonio di suo zio e ha recitato nel Lago dei cigni, ha fatto il bagno nel mare di Maiorca e la turista a Roma con gli occhiali scuri, ha tenuto in braccio un neona­to, ha fatto i capricci, ha riso fino a farsi venire il singhiozzo, ha gio­cato a nascondino a ricreazione, ha manifestato in piazza contro i tagli alla scuola pubblica coi cartelli «stop the cuts», ha scritto un te­ma sulla morte di lady Diana che è morta nel tunnel tre giorni dopo che sua zia Carol era morta in un letto, ad agosto: «I fiori che io e i miei due cuginetti abbiamo lasciato alla zia Carol erano molto spe­ciali perché venivano dal suo giardino, i fiori dei figli della princi­pessa Diana non venivano dal suo giardino. Mi è sembrato che la morte della principessa Diana sia restata in tv per giorni e giorni. La zia Carol è morta di cancro e ha lasciato i suoi due figli di 3 e 5 anni e suo marito, mio zio Bruce. La principessa Diana ha lasciato due fi­gli di 12 e 15 anni e suo marito, il principe Carlo. La morte della prin­cipessa Diana è stata solo un sottofondo».

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Questa è la storia di Molly e di sua madre Lesley che di mestiere fa la fotografa e che con le sue foto l’ha raccontata in silenzio a tutto il mondo, e se non avete voglia di ascoltarla perché costa fatica senti­re di bambini ammalati, bambini che muoiono vi sbagliate perché è una storia bellissima, invece, che parla di rabbia e di allegria e di come si possa vivere e poi sopravvivere, alla fine, anche quando sembra di no. Lesley, per esempio, quando Molly se n’è andata ha cominciato a curare le piante: «Volevo sparire, essere invisibile. Mettere le mani nella terra fino a farle diventare nere. Far crescere i fiori, accarezzare le foglie. Stare in silenzio ad accudire qualcosa che avesse bisogno di me. Togliere quello che non serve, aggiungere quello che manca. È stupendo fare il giardiniere: non sei più nessu­no, sei la forza che fa crescere le piante. Ti dimentichi. Ti prendi cu­ra». È stato così per tre anni, ora ha ricominciato a fotografare. Vuo­le traslocare, dice, perché le serve avere in casa una camera oscura.

Lesley McIntyre ha 55 anni, sembrano 15 di meno. Vive in una ca­sa di fate dentro il parco di Putney, Londra. È lunga e sottile, ha i ca­pelli lisci biondi che scendono sul viso separati da una riga a metà, porta alle orecchie due tappi di bottiglia su cui è dipinta Frida Kha­lo. Sta scalza, tiene le finestre aperte anche se fa freddo, porta una maglietta leggera, senza maniche. In bagno c’è una vasca verde e al muro una foto di Molly che fa il bagno dentro la vasca verde. In sog­giorno ci sono libri per terra, libri dappertutto.
Alle pareti i bambini africani di quando viaggiava in Africa, «prima», e i disegni dei fiori e dell’orto botanico di quando ha curato le piante, «dopo». Molly nel­le cartoline di Natale, Molly con le amiche, Molly ovunque.
Sorride moltissimo, Lesley. Sorride tutto il tempo anche quando le si inclina un angolo delle labbra e dice cose come «certo sì che avrei abortito se l’avessi saputo. Ma no, non se avessi saputo che Molly era malata: se avessi saputo che sarei stata sempre da sola, che avrei fatto così tanta fatica, che viviamo in un mondo che non pre­vede l’errore e quando l’errore arriva devi arrangiarti, è un proble­ma tuo, nessuno vuole saperne di bambini tanto fragili da essere de­stinati a morire, ma tutti siamo fragili da qualche parte, e destinati a morire, anche».


Tiene sul tavolo l’edizione italiana del libro The time of her life, lo pubblica Contrasto: Il tempo di una vita. «Prima che Molly nasces­se pensavo che sarei riuscita a conciliare il lavoro con la maternità. Ci sono riuscita, ma non nel modo che avevo previsto. Non ho mai potuto allontanarmi da una bambina così fragile, sono stata fuori da sola cinque volte in quattordici anni, cinque giorni. Per il resto, cioè sempre, ero con lei, e non ho mai smesso di fotografare. Ho fotogra­fato la vita quotidiana, la sua infanzia, i nostri viaggi, tutto. Ho deci­ne di migliaia di foto ancora da sviluppare. Queste sono alcune, po­chissime». Dal giorno della nascita a quello che di quattro giorni pre­cede la morte, il tempo di una vita.
«Avevo 34 anni, Molly era la mia prima figlia. Non ho avuto nes­sun sintomo durante la gravidanza, tutto bene, i tracciati, tutto a po­sto. Solo, tardava a nascere. 44 settimane. I medici dicevano è a po­sto, prende il suo tempo. Quando è arrivato il momento non ho vo­luto anestesie, né stimolanti: è nata da sola. Gli amici mi hanno por­tato dei fiori e dei biscotti, abbiamo festeggiato. Dopo qualche gior­no mi hanno detto che non sarebbe sopravvissuta. Aveva un’ano­malia nella formazione dei muscoli, non l’hanno mai diagnosticata con esattezza. Mi hanno detto che non sarebbe uscita dall’ospeda­le. L’ho portata a casa, invece, e l’ho tenuta qui più di 14 anni.

La no­stra vita non è stata tragica: è stata molto dura, ma bellissima. Mol­ly è stata una bambina felice: privilegiata, dunque felice. Era bril­lante a scuola, stava molto a suo agio con gli altri, adorava mia ma­dre, aveva delle amiche magnifiche e prendeva i suoi limiti con rea­lismo e filosofia. A differenza di moltissimi bambini nella sua condizione ha avuto tutto ciò che le serviva per vivere serena.
Non si è mai considerata malata. Solo nelle ultime settimane mi ha detto: “Ho un cervello che funziona in un corpo che non lo fa”.
E sei giorni prima di morire: “Finora sono stata sana per tutta la vita”.

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La tragedia non è la malattia, è che viviamo in un mondo che non è attrezzato per dare un supporto a chi non ce la fa: ho passato tanti anni a lottare per evitare che mia figlia, a causa della sua disabilità fisica, venisse emarginata. So esattamente di cosa parlo. C’è un tabù che riguarda l’invalidità, la morte e soprattutto la morte infantile: è come se fosse un pensiero da scacciare, qualcosa da nascondere. E invece la vita dura quel che dura, per tutti, Molly era così intelligente, brillante, ironica, era così consapevole dei suo i limiti e della sua fortuna. Ci sono milioni di bambini nel mondo che non hanno il privilegio di Molly e che giacciono abbandonati in qualche letto. Allora sì, non vale la pena che vivano. Parliamo di aborto, di eutanasia. Allora sì, se non ci sono le condizioni per far vivere dignitosamente queste persone, non bisogna farle nascere. Io rispetto tutte le religioni pur senza averne una. Rispetto cattolici e buddisti, ebrei. Però nessuna religione dovrebbe imporre la vita per la vita se non è in grado poi di renderla vivibile per il bambino e per gli altri, per tutti».

Vento dalla finestra, un brivido di freddo. Lesley sorride e si scuote i capelli, vuole qualcosa da bere? La cucina è grande, rosa e di legno. Altri libri, altre foto di Molly. Le somiglia moltissimo. «Quindi anche adesso che so cosa è stata Molly per me posso dirle con esattezza che sì: avrei abortito se avessi saputo, e abortirei adesso in un mondo così.
Quando nascono bambini con problemi tanto gravi il novanta per cento delle coppie non resiste all’urto. I genitori si separano, anche io e suo padre ci siamo separati: è inevitabile, se per esempio si hanno idee diverse su cosa fare… Operarla e farla vivere negli ospedali attaccata alle macchine, o non operarla e aspettare che la morte la trovasse viva, a casa? “Salvare” le nostre vite adulte, o salvare la sua?
Ecco, è difficile dimenticarsi di sé, proiettarsi in due, insieme, in un bambino che richiede ogni energia.
Capita che si resti presto soli. E da soli, o si ha una famiglia alle spalle, una madre, una nonna, del denaro, le risorse per lasciare il lavoro e occuparsi solo di lei, la possibilità di farlo oppure cosa?
Dove sono, dopo, le associazioni per la vita, gli antiabortisti? E aggiungerò: Molly non ha mai sofferto il dolore fisico. Ha vissuto bene, sulla sua sedia ma bene. Se avesse sofferto e mi avesse chiesto di aiutarla a smettere di soffrire io l’avrei fatto. In linea di principio non vorrei veder morire nessun essere umano ma certo che l’avrei fatto, l’avrei fatto per lei come se lo stessi facendo su di me. Quando ami qualcuno non è affatto difficile decidere, è facilissimo. La adoravo, e non avrei esitato».

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«Quando Molly è morta ero così stanca. Pensavo che sarei morta anch’io. L’amore profondo è un’esperienza molto negativa. Può annullarti, portarti via da te. Però invece da quando è nata ho sempre avuto chiara la consapevolezza che un figlio è un essere separato, è un altro essere umano non una parte dite.
Molly ha visto morire mia madre, sua zia. Ha visto sparire le persone della vita quotidiana, ha imparato che succede, uno va e gli altri restano. Sapeva che sarebbe andata, un giorno, anche lei.
Ho aspettato fino all’ultimo che mi chiedesse “mamma, sto morendo?”. Le avrei detto: sì.
Era così arrabbiata gli ultimi giorni, era infuriata all’idea di morire.
La stavo girando per evitare che le venissero le piaghe, una volta, lei era insofferente con me. Le ho detto “amore, se potessi fare qualcosa la starei già facendo”. Lei mi ha risposto “lo so, mamma” e poi ha aggiunto: Sarei così contenta se potessi essere ancora me stessa anche solo per un momento”. Così, eravamo pronte. Lo sapevamo. Però la domanda che aspettavo mi facesse non me l’ha fatta mai. È stata più saggia di me, e più generosa».

«Dopo, per tre anni, ho lavorato come giardiniere. Sono scomparsa, ero diventata invisibile. Era fantastico stare fuori con la terra nelle mani, ascoltavo gli uccelli, anche Molly era un uccello.
Facevo un lavoro molto pesante e leggerissimo. Facevo sbocciare i fiori e pazienza per quell’amore finito, un amore così non finisce, certi amori non finiscono mai. Ti accompagnano e ti aiutano a potare un ramo secco, a sorridere a un germoglio. Tutto nasce e muore, tutto comincia a morire subito: con Molly è stato chiarissimo. Ho sempre sentito, anche nei momenti più felici, la presenza costante della loro e della sua mortalità.

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Poi un giorno, per caso, ho incontrato un fotografo.
Abbiamo cominciato a parlare di foto. Non avrei mai pensato di mostrare le foto di mia figlia, in grandissima parte non le avevo nemmeno stampate. Mi pareva una storia personale, la nostra storia. Però poi ne ho mostrate alcune, timidamente, e le ho viste con gli occhi di un altro: è stato come vederle per la prima volta, ed erano bellissime. Intendo: Molly è bellissima. Oggettivamente: la sua vita è stata bellissima, non tutte lo sono altrettanto. Lui, il fotografo mi ha detto: “Hai le immagini di una persona straordinaria, forte e fragile come ciascuno, la sua storia non è solo la vostra: è anche la nostra è di tutti”».
«Così le ho messe infila, in ordine di tempo: credo che chi le guarda, prima di arrivare al punto in cui la sua invalidità risulta evidente, possa essersi affezionato alla persona contenuta in un involucro così delicato e fragile. Credo che nelle foto si veda una bambina che cresce e dopo, solo molto dopo, una bambina un po’ diversa. Questo in effetti era Molly. Una bambina. Dopo, molto dopo, una bambina diversa».

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File .pdf dell’articolo completo: Da Repubblica 8 maggio 2015. Mamma coraggio [8]