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Racconti d’estate. (3). Vivere la vacanza

di Francesco De Luca
[1]

 

Lasciare le abitudini di Roma. Basta. Svegliarsi in orario e andare a scuola, vestito in modo appropriato, attento e reattivo a quanto intorno si agita, e selettivo verso gli stimoli ambientali nocivi.
Venire in vacanza. A Ponza.

Il sole entra presto dalle finestre ma nessun rumore urta. In casa si fa attenzione a che non si disturbi.
Pino dorme nella stanza col fratello. Sono due i letti da quando è andato a studiare. Prima i due dormivano insieme nel lettone.

Toni, il fratello, lavora come manuale e si alza presto. Il papà appena sveglio si porta in cucina e di rado rientra nelle stanze interne. La madre non trova pace a sistemare la camera, rifare il letto, prendere quanto occorre dall’armadio, dal comò. Ma tutto e sempre nel silenzio più propizio al riposo di Pino.

Nulla aveva potuto contro quel gatto che, sul far del mattino, aveva lanciato richiami amorosi. E quel galletto? Insistente col suo grido mattutino. Il pollaio è prospiciente al balcone e non poteva essere zittito. Anzi aveva messo in moto una sequenza di appelli, gli ultimi flebili e lontani.

L’agitarsi ovattato del giorno che si scioglie ai ritmi quotidiani agevola in Pino la sonnolenza. Ovvero lo stare supino, racchiuso in sé ma protetto da un involucro amico, familiare.

Questa è vacanza. Lasciarsi al flusso di accadimenti buoni, amorevoli. E Pino si crogiola allungando il dormiveglia che ormai è una veglia camuffata. Si alza infine e sembra che il giorno attenda lui.

Un’occhiata al porto. È lì pronto a farsi travolgere dai piroscafi in entrata, dagli aliscafi, dai motoscafi. Spalancato alla sua vista giacché la casa è in alto, con un piccolo ballatoio aereo. Da lì si domina un arco che comprende l’attracco presso i Carabinieri e si slarga a Santantonio, Giancos, SantaMaria, Frontone, fino a Gavi.

Al molo Musco sono ormeggiati un motoscafo lussuoso dove è nostromo il ponzese Totonno Pagano e un panfilo dalla sagoma slanciata. In rada è ancorata la bettolina dell’acqua, e sotto al Mamozio, luccica il motoscafo del notaio De Martino.

– Pino? Mettiti i sandali… – lo sgrida la madre, vedendolo prendere le scale che portano al paese.

I sandali? Gli toglierebbero uno dei piaceri più grandi che l’estate porta con sé. L’andare scalzo. Dapprima con fare maldestro, poi sempre più agile. Il liscio dei gradini di basalto, lo sconnesso delle pietre, i sassolini evitati con cura. Dov’è diretto? Alla Caletta.

Sul Corso incontra Ricciolino, coetaneo. Sul molo Musco le mezze colonne, poste per gli attracchi dei natanti li invitano a saltarle. Sulla punta, intorno alla base del Lanternino e fino alla spiaggetta s’allunga una passerella in cemento. Il mare ne ha smangiato il manto e, di quando in quando, spuntano le pietruzze. Sono levigate perché è stata utilizzata la ghiaia della spiaggia.
La rena della caletta ancora non è rovente e passarvi sopra è una goduria.
I bagni. Era un intrattenersi col mare in compagnia degli amici. Sgambetti, tuffi, calate, facimm’ i delfine… oppure acchiapparella a terra e a mare.

[2]

Non si dà fastidio a nessuno perché nessuno frequenta quella spiaggia che non sia ’a uagliunera. Poi compare come per magia un pallone, e con esso si moltiplicano i salti, i tuffi, i gridi.

La scogliera… affrontare la scogliera, quella formata da massi neri, presi alla Scarrupata, è un’impresa che non disturba. Anzi. È una sfida saltellare fra i punzoni, gli incavi, le creste taglienti, gli appoggi. Senza l’aiuto delle mani… se no… “Aspetta… aspetta…” “Che c’è? ”. C’è una ‘patella reale’ in quella fossetta. Guarda com’è lucida, iridescente! È il guscio… soltanto il guscio di quella che per la sua bellezza si designa come ‘reale ’.

A piedi scalzi, nessun dolore, nessun gonfiore, quasi che il toccare terra incardini la sua persona all’isola.
– Mannaggia..!
– Che è succiesso?
– Mannaggia ’a miseria… me so’ tagliato ’u piede! ’U viccanno ’u vvì… nu brite!
Ricciolino accorre insieme a Lollò, e lo aiutano. Bisogna andare in farmacia. Don Luigi, il farmacista, è bonario. Si accerta che la ferita non sia profonda, la pulisce e vi mette il mercuriocromo. Benda e: – Vai a casa … e per una settimana non puoi fare il bagno!

A casa, rimproveri e cure, colpe e giustificazioni.
La madre lo sistema sul cortile esterno, seduto. Davanti c’è la sua isola che pulsa come tutto ciò che vive. Si sta attenuando il levante e le barche si cimentano con le onde. Sono i gozzi di Giuseppe ’i Mamena, ’i Facciabruciata. Sul sandolino Luigi Di Monaco arriva alla punta della scogliera e torna indietro, il motoscafo del notaio brilla per il lustrore.

[3]

Accanto alla sedia Pino ha posto alcuni album di Tex.
Quando si angoscia nel confrontare la sua inerzia con l’agitarsi vivo del porto si dà alla lettura di Aquila della notte. Così hanno chiamato gli indiani Navajos Tex e così lo hanno designato loro capo. Stanno combattendo i sortilegi di quel dannato Mefisto.

– Ma’..? Ogge ca se mange? – chiede il ragazzo, mirando il perlaceo della patella reale.
– Cianfotta” – risponde la donna. – Sai che tuo padre va matto pi cucuzzelle ’i Carmelina ind’ a padura.

Saranno sette giorni di pena. Ma poi potrà di nuovo trotterellare scalzo per i vicoli come un puledro nato sopra uno scoglio nel mare.