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Da Lagosta a Ponza

di Rita Bosso

 

Santina è dolcissima, cordiale, ospitale ma su un punto è irremovibile: niente foto. Insisto, Santina non dovrebbe temere l’obiettivo perché è bellissima anche adesso che è bisnonna, ma non la spunto. Vabbè, qualcosa troverò nel web, per esempio una bella foto dei maschi di casa Spignesi, tre generazioni di simpatia, di cordialità e di operosità.

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da destra: Silverio (marito di Santina), Bastiano (cognato), Vittorio (figlio), Silverio (nipote)

Sono andata a casa Spignesi perché volevo che Silverio mi raccontasse del carcere mandamentale, in cui suo padre lavorava e tutta la famiglia viveva. Mentre chiacchieriamo e Silverio mostra le foto di famiglia, viene fuori che Santina è nata a Lagosta, l’isola dalmata in cui nel 1938 si trasferirono una decina di famiglie ponzesi. “A Ponza la pesca era in crisi, perciò i miei accettarono l’invito del governo a trasferirsi a Lagosta” racconta.

Silverio Corvisieri ricostruisce le fasi di questa piccola  migrazione. Il trattato italo-jugoslavo seguito alla prima guerra mondiale sancisce la sovranità italiana sulle isole di Lagosta (Lastovo) e di Lissa (Vis). Nel 1936 il governo italiano intraprende la creazione di una testa di ponte a Lagosta, dove vivono 3000 slavi: fa costruire un villaggio sulla costa completo di scuole, strade, albergo, uffici e di una piccola fabbrica per inscatolare tonno e sardine; impone agli slavi la cittadinanza italiana, la frequenza di scuole italiane e la rinuncia alla loro lingua. Un gruppo di famiglie istriane viene inviato a Lagosta ma non resiste alle condizioni di vita difficili. Il secondo tentativo viene fatto con i ponzesi, avvezzi ai sacrifici e alle privazioni, buoni pescatori, capaci di inserirsi in luoghi inospitali, come dimostrano gli insediamenti a La Galite, in Sardegna, in Toscana.

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Stavamo bene, avevamo la casa e due gozzi; il mare era pescoso, mia madre lavorava nella fabbrica di conservazione del pesce” ricorda Santina.

I rapporti tra slavi e italiani sono abbastanza pacifici, anche perchè i due gruppi occupano aree e settori economici distinti: gli slavi sono montanari, dediti all’agricoltura e alla pastorizia; i ponzesi si stabiliscono invece sulla costa, i maschi pescano e le femmine lavorano nella fabbrica di conservazione del pesce. “Dopo di allora, mia madre non toccò mai cibo in scatola“, rammenta Santina.
I ponzesi non sono percepiti come invasori, è evidente che si tratta di un gruppo coeso, lavoratore, in cerca delle risorse per sopravvivere, del tutto estraneo a idee di dominio e d’invasione. Nessuna guerra tra poveri si scatena; semmai, emergono divergenze di vedute sull’uso del territorio, che gli indigeni vorrebbero regolamentare mentre i nostrani, neanche a dirlo, mostrano allergia a qualunque limitazione.

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Luisa De Luca Spignesi (suocera di Santina), la cuoca dei confinati. La prima foto risale agli anni Quaranta

Il clima muta con lo scoppio della guerra: l’occupazione della Jugoslavia da parte di italiani e di tedeschi e il rinforzo della presenza militare a Lagosta – che giunge ad avere tremila soldati italiani – mette le famiglie ponzesi in una condizione di obiettivo pericolo. “Ci venne a prendere il bastimento Maria Pace di proprietà di Totonno Primo; io avevo quattro anni” ricorda Santina.

Marisa, la moglie di Giuseppe Mazzella il pizzaiolo, aggiunge che tra le famiglie ponzesi che si trasferirono a Lagosta vi era anche quella del marito: “Infatti Giuseppe è nato a Ponza, ma fu ‘ncriato a Lagosta”, dice, con un termine che non avevo mai sentito e che è molto più espressivo dell’equivalente “concepito”. Tocca dunque farsi raccontare da Giuseppe un altro pezzetto di questa storia di Mediterraneo e di migranti.

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Maria Luisa Spignesi con i figli