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Buffa la vita… (2)

di Pasquale Scarpati

 

Un mondo “originale” (nel duplice significato)
Quando transitavo in quella fase in cui il mondo degli adulti sembrava ostile e lontanissimo – ostile perché composto, per la maggior parte, da dinieghi rispetto alla mente che pensava di poter far tutto liberamente e lontanissimo per le ragioni già dette – ero circondato da persone di parecchi anni più grandi di me.
Da parte della famiglia di mio padre l’unica mia coetanea era Rosalba, gli altri, compreso mio fratello, avevano dai 10 ai 14 in più, oppure erano, per me, molto piccoli come Maria Rosaria e Gino.
Ma Rosalba non essendo “un maschietto” non poteva condividere con me i giochi “da maschi” ed inoltre non le era consentito, perché disdicevole secondo i rigidi canoni dell’educazione familiare, né andare via vie né andare casa casa e, pertanto, a me poco interessava chi non potesse entrare nell’arena.
Lo stesso poteva dirsi dalla parte di mia madre. Fatta eccezione per altri due maschietti, anche se un po’ più piccoli di me: Giuseppe e Mario; tutti gli altri: Raffaele, Vittorio, Eva, Andrea e Giovanna erano più grandi di me. A questo si aggiungeva il fatto che loro abitavano “lontanissimo”: il primo a Giancos, il secondo, nientemeno che a… Santa Maria!
Per cui solo la domenica o nelle feste comandate o durante i “fasti” della vendemmia, di cui ho già scritto nel dic. 2012 (leggi qui [1]), ci saremmo potuti vedere e quindi giocare ed azzuffarci. Era l’unica nota lieta di una domenica pomeriggio altrimenti noiosa; allorché i miei decidevano di salire, passo dopo passo, e solitamente per la via Nuova verso casa di nonna.
Ahimè il lungo strazio! Lungo la strada si accompagnava zia Marietta che abitava a Giancos con la figlia Giovanna. Ma quella, anche se di poco più grande di me, si sentiva già signorina e con noi non voleva aver a che fare.
Zia Sabettina ed Eva, invece, abitando, lungo la salita dei Conti, nei pressi di casa di nonna e percorrendo, quindi, un’altra strada, il più delle volte le trovavamo già lì. Gli adulti discutevano, anche a volte animatamente, di molti argomenti poco interessanti se non noiosi, forse di tasse, di lavoro dei campi, di altre persone.
Se ero in compagnia non esisteva alcun problema anche se poi, rientrando in casa sporco se non contuso, ne subito le conseguenze. Se invece la giornata era uggiosa oppure Giuseppe e Mario non mi facevano compagnia non mi restava che accarezzare Cardogna, il volpino, pensando agli amici che forse scorrazzavano a Sant’Antonio o erano andati al cinema di don Michele Regine e, in seguito, nel “salone Margheritad’u cumpare Barbett’.

Negli altri giorni o in altri momenti, all’occorrenza, mi sarebbe piaciuto entrare nella cerchia degli adulti giovani. Ma quelli a volte mi blandivano, specialmente se, fidanzati, mi invitavano, non proprio disinteressatamente, ad andare con loro a cinema (la famosa “candela”). Ma questo “accompagnamento” era interessante e soprattutto conveniente anche per me, sempreché il film mi fosse piaciuto! Se quello, invece, si presentava “brutto” perché “barboso”, fatto solo di tanti dialoghi e poche azioni o peggio ancora se era un thriller, mi annoiavo terribilmente nel primo caso e mi impaurivo nel secondo. Due cose mi consolavano: la prima quella di respirare l’atmosfera (non l’aria perché densa di fumo) della sala cinematografica, con il suo brusìo, i suoi applausi, i suoi fischi, la sua partecipazione corale (di cui ho già scritto: leggi qui [2]); la seconda consolazione era che, all’intervallo, quasi sempre arrivava ’nu cuppetiell’ di lupini o un po’ di noccioline comprate da Menicuccio lì in fondo a destra quasi sotto il palcoscenico verso la prima porta dell’uscita di sicurezza.
Durante l’intervallo o gli intervalli – a seconda della lunghezza del film -, il buon uomo non finiva mai di strillare: ’O spass’, ’o spass’, ’i nucelline ame’!
Il più delle volte, però, gli adulti mi scansavano, ora con un pretesto ora con un altro. Spesso agivano come faceva il Pastore con Marzo (*): prima mi dicevano o promettevano qualcosa, poi ne facevano un’altra a mia insaputa, anzi il più delle volte “sparivano” prima che io giungessi: non si facevano trovare, lasciando in me una gran delusione e una voglia matta di protesta e di acredine nei loro confronti.
Per fortuna mi venivano in aiuto “bande raccogliticce” che vagando tra la Punta Bianca, più o meno all’altezza della frutteria di Peppenella ’u’ prèut’ e il piazzale di Sant’Antonio, frantumavano il cristallino e pressoché perenne silenzio della zona.
In queste bande era lecito: prima parlare, poi discutere, in seguito alluccare (litigare strillando) ed infine pigliarsi a mazzate anche con oggetti della “prima maniera” come le pietre (le famose pretate), con buona pace di tutte le raccomandazioni degli adulti. I quali, sentendo quello che per loro doveva essere un enorme frastuono, si affacciavano minacciosi dai balconi o dalle finestre o dalle curteglie o si facevano sulla porta di casa intimandoci di andar via o di rientrare qualora si abitava nelle vicinanze, non senza aver minacciato rappresaglie di varia natura.
Ciò accadeva soprattutto durante il periodo estivo quando il caldo Sole, lasciato lo Zenit, iniziava la discesa per andare a riposare. Era la famigerata controra. Momento di dolce riposo per quelli che fin dal primo mattino erano andati a lavorare ed erano rientrati per il pranzo ma drammatico per me perché costretto a stendermi sul lettino o – in alternativa ma da me fortemente voluto -, per terra su un lenzuolo o una coperta.
La pennichella, allora, non rientrava nel mio carnet quotidiano, anzi era totalmente bandita!
Così, quelle poche volte che potevo eludere una simile tortura, uscivo di casa, piegavo a destra, correvo per la discesa, giù fino all’imboccatura d’u ruttone che si apre dalle parte di Sant’Antonio e andavo su e giù per le dune di nera pozzolana o di pietrisco poste lì per la costruenda Banchina Nuova.

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La costa di Sant’Antonio, prima della banchine

L’eventualità che, in seguito, la polvere mi sarebbe stata tolta da mamma con il battipanni o lo ’u scupuliaturo (leggi qui [4]), in quel momento era lontana dai miei pensieri! Nella migliore delle ipotesi mi fermavo nella bottega del fabbro Dumminico Zecca e lo aiutavo a girare la manovella della forgia che, dopo un primo momento di maggior sforzo, diveniva più leggera, acquistava maggiore velocità e mi rallegrava con il suo stridio e con la fiamma, giallo- rossa, che, crepitando e sfavillando, saliva sempre più da una base di carbone nera e informe.

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Eh sì, infatti, allora non esisteva nessuna banchina se non quella vecchia e stretta sotto Corso Carlo Pisacane, al Porto. Gli unici suoi accessi: da una parte le lunghe e ripide scale di Punta Bianca, dall’altra quella prima di arrivare sotto Mamozio un po’ meno ripide.

Conoscevo bene quei luoghi avendo visto la luce al secondo piano di quella palazzina che stando su corso Carlo Pisacane, da una parte affaccia sugli scalini che portano alla Dragonara e all’inizio della Via Nuova, mentre dall’altra affacciava direttamente sul mare. Occupavamo il piano terra ed il primo piano mentre al secondo ed ultimo piano abitava Clorinda con il marito Vittorio e la piccola Cristina. Ma guardandola dal mare sembrava una palazzina composta da quattro piani, poiché il primo piano immetteva direttamente sul mare, mentre al di sopra di questo insistevano tre balconi, uno per piano.


Discesa dalla Dragonara su Corso Pisacane

Dalla parte del “quadrivio” l’uscio veniva rinserrato da un grande portone di legno che aveva all’interno vari chiavistelli di ferro mentre, all’esterno, un’unica serratura, molto grande, veniva governata da una grande chiave simile a quella che San Pietro stringe nella mano destra. Non era, però, la porta del Paradiso anche se, quando l’oltrepassavo, tale mi sembrava per il calore e l’affetto che vi trovavo. Questo piano era composto da due stanze intercomunicanti: una, come già detto, si affacciava su corso Carlo Pisacane, l’altra sul mare.

Lungo la Via Nuova, prima della bottega-falegnameria di Pataccone, vi sono due case con due arcate. Nella prima vi abitava la famiglia del fabbro Dumminico Zecca prima che emigrasse in America con Luigino, Luciettina e le altre sorelle e fratelli, mentre nella casa adiacente abitava la famiglia di una sorella di mio padre, Nunziatina, ma chiamata in casa Rusinella per quelle “stranezze” antiche di cui ho già parlato. Essa era composta dal marito zio Gaetano, grande estimatore della pasta asciutta, e dalle figlie Rita e Brigida ambedue di più di un decennio più grandi di me.
Zio Gaetano era quello che quando si andava con il gozzo a Zannone fischiava dal mare per vedere i mufloni che scendevano o si arrampicavano per i ripidi declivi oppure, quando si andava su per le rupi scoscese di Palmarola, mi metteva a cavalcioni sulle spalle ed io ero felice perché mi sembrava di stare sospeso tra cielo e dirupi.
delle due sorelle Brigida era più accomodante, Rita più arcigna, timorosa che sporcassi la casa.
– Non andare qua, non ti poggiare là – mi diceva – vatti a sedere in cucina”.
Allora io preferivo passare alla porta a fianco, dove sicuramente avrei trovato qualcuno con cui parlare o per meglio dire giocare, soprattutto Luigino e Luciettina.
Non era raro che mi fermavo da loro anche a cena e, stranamente, o per vergogna o per fare bella figura, trangugiavo tutto anche ciò che a casa mia di solito aborrivo e rifiutavo sistematicamente come i rutunni bolliti.

Al di sotto dell’abitazione di zia Rosa vi era una cantinola, dove mamma e le altre donne della famiglia, in giorni stabiliti, (in media ogni 10 /15 giorni), tra bagnarole e scafaree facevano ’a culata. Lavavano cioè i panni sporchi in acqua bollente con il sapone fatto in casa o, meglio ancora, cu’ ’u ssapone muòll’ che, contenuto in barattoli di ferro capienti, si vendeva sfuso e a peso: si prendeva con un cucchiaio e si poggiava sull’onnipresente carta oleata, poi veniva avvolto nel giornale o nella pesantissima carta paglia detta così per il colore giallo, oggetto di mille controversie tra commerciante e cliente che, come ho già scritto, non poteva non chiaitare. Era prassi, un po’ come avviene in alcuni paesi del vicino oriente (la penuria di denaro era ed è causa di tutto ciò?).
Insomma ci si aiutava gli uni con gli altri ed i panni odorosi, strofinati prima su piani inclinati di cemento scanalati o su tavolette anch’esse scanalate, poi risciacquati nelle bagnarole o in lavatoi di cemento, venivano stesi al sole o nelle curteglie oppure, come a casa mia, fuori ad uno dei balconi che si affacciava direttamente sul mare. La corda su cui si stendevano i panni non era fissa ma girava su due rotelline poste alle estremità del balcone, così chi stendeva o ritirava i panni, evitava la fatica di andare avanti ed indietro per il balcone.
Pertanto si può tranquillamente affermare che dal balcone di casa avrebbero potuto essere pescati numerosi pesci, soprattutto cefali guizzanti, dato che, in quelle acque, confluiva anche una piccola condotta fognaria che partiva dall’abitazione di una signora soprannominata la “giraffa” che abitava un poco più su verso la Dragonara.
Un’altra piccola condotta si versava in mare sulla Punta Bianca al di là di uno scoglio chiamato ’u scogli’i Maria Razia, mamma di zia Liliana moglie di un fratello di mio padre, zio Peppe. Lì, mio fratello, alla tenera età di cinque anni, aveva imparato a nuotare con il famoso metodo della corda avvolta intorno alla vita. Metodo sicuramente per niente traumatico! (sic!). Io invece imparai da solo ’ncopp’ ’u summariell’, gradatamente e senza traumi. Ma, in precedenza, ero stato anch’io “traumatizzato”, da mia madre, che mi aveva solennemente rimproverato perché avevo perso il tappo del grosso salvagente acquistato da mia zia Rosa a Napoli.
Dal promontorio detto ’i Pataccone perché su di esso vi era il giardino del falegname, fino alla Punta Bianca, si potevano raccogliere grosse vongole veraci.

Al mare si accedeva da una grossa botola ricoperta da assi di legno posta sulla destra della prima stanza o sala da pranzo. Rozzi gradini di cemento, consunti, sconnessi e senza alcuna protezione immettevano in un primo ambiente umido e pieno di muffa, dove in un angolo si apriva la bocca di un vecchio forno inutilizzato da anni. L’odore di muffa era dovuto sia al mare sia alla parete del pozzo (’a piscina) adiacente a casa che veniva regolarmente riempito dalla piccola nave cisterna nera che spesso si metteva in rada verso Sant’Antonio. La nave emetteva fumo nero dal lungo fumaiolo e fumo bianco invece da uno sbuffante foro laterale.
Probabilmente la vicinanza di questo pozzo rendeva la casa “comoda”: bastava uscire, piegare a destra, aprire la porticina fatta di assi di legno, calare il piccolo secchio, riempirlo e tirarlo su copiosamente piangendo. Probabilmente aveva pietà dei miei numerosi graffi sanguinanti! Perché, una volta che si era poggiato sull’acqua, non avendo alcun peso laterale, doveva essere capovolto con strattoni secchi e precisi. Quest’operazione non solo richiedeva un po’ di tempo ma spesso faceva urtare il braccio alla parete essendo la bocca del pozzo non molto larga. Fino a che non si sentiva il secchio che affondava e tirava come fa un pesce quando abbocca alla lenza quella a bolentino, senza canna. Lui da una parte, io dall’altra.
La più bella sensazione: quella del pesce che ha ’ngucciate… sentire nel palmo della mano il filo che si tende all’improvviso, stringere e tirare; poi a mano a mano che saliva andare con la mente alla sua grandezza e alla specie ed infine, sporgersi un tantino dalla barca per verificare se la realtà fosse conforme all’immaginazione.
Così, mentre issavo il secchio, con la sola forza delle braccia, mi figuravo quanta acqua avessi tirato su. Poi, soddisfatto e trionfante, lo poggiavo sul piccolo parapetto o per terra e, senza sciogliere la corda, lo portavo in casa. Mia madre mi rimproverava sempre perché pretendeva che lo sciogliessi prima, perché la corda inzaccherava tutto il pavimento.
Per fortuna spesso, quando ne aveva facoltà, mi veniva in aiuto la cara e minuta Filomena che mi insegnava anche quanta forza dovessi mettere negli strattoni per far capovolgere il piccolo secchio.
Ma non potevo sperare nel suo aiuto quando zia Malvina, che abitava sulla curteglia, mi chiedeva di fare la stessa cosa nel pozzo posto tra la prima e la seconda rampa della scala che portava alla soprannominata curteglia.

 

(*) – La leggenda di Marzo e del Pastore: di come il Pastore, non fidandosi delle promesse di Marzo lo gabbò per tutto il mese, ma alla fine ad essere gabbato fu lui – http://balbruno.altervista.org/index-2506.html [6]

 

[Buffa la vita… (2). Continua]
Per la puntata precedente, leggi qui [7]