Ambiente e Natura

Ritratti fornesi. Benedetto Aprea, Calacaparra nel cuore

di Giuseppe Mazzella

 

Classe 1924, Benedetto Aprea porta nel volto e nelle mani nodose i segni di una vita dura e laboriosa. Abita con la moglie Anna Maria, di dieci anni più giovane, in una casa tappezzata di foto, tra le quali più di una dedicata ad una delle glorie della casa: Don Raffaele Aprea, uno dei parroci isolani del primo novecento, fratello del padre Luigi. Ma tutta la casa è uno scrigno di memorie, custodite con amore: oltre alle tante foto, vecchi servizi da tavola, ninnoli provenienti da ogni parte del mondo, un mobilio vissuto e che racconta la storia della sua famiglia.


Benedetto comincia a raccontare della sua infanzia povera, passata tra i pochi anni alla scuola e il faticoso lavoro della terra, che la famiglia aveva a Punta Incenso e al Core:

“Dodici, tredici ore di zappa, che avrebbero sfinito il fisico più robusto. In una perenne penuria alimentare, a causa della quale molti erano i bambini che soccombevano. Forse anche a causa delle igiene approssimativa. Non c’era acquedotto e l’acqua noi l’andavamo a prendere alla “Fonte ’i Frusolone” (una fontana di epoca romana, che apparteneva ad un imponente sistema idrico che arrivava fino a Santa Maria). E tutto avveniva a piedi, per sentieri adatti agli asini, del resto l’unico mezzo di locomozione dell’epoca. La stessa strada che oggi collega Calacaparra con il Porto fu realizzata solo dopo la seconda guerra mondiale. Poche le pause da dedicare al gioco, con lo strummolo, alla fontanella, al ‘cavallo tuosto’ e al carrettino costruito con ruote fatte dai cuscinetti usurati dei motori marini. E sarà il mare ad attrarlo quasi subito e per tutta la vita”.

Quando hai cominciato ad andare per mare?
“Nelle acque attorno a Ponza già a dieci anni, e a quindici ero imbarcato sul “S. Antonio”, un gozzo a remi di sette metri con il quale pescavamo all’aragosta nel mare di Sardegna. Ci arrivavamo, assieme a tante altre barche, portati su un bastimento. Un lavoro duro che ci impegnava per tutto il giorno e con una alimentazione scarsissima fatta di pasta bollita, senza sugo, gallette, castagne. Eravamo quattro persone di equipaggio più me, che ero il più giovane. All’Asinara, dove eravamo autorizzati a scendere a terra, io mi riparavo in una grotta. Poi scoppiò la guerra”.

E tu fosti chiamato alle armi.
“Sì, fui chiamato nel 1940, prestai servizio a Taranto e a Brindisi e poi ebbi la fortuna di essere trasferito a Roma e infine a Ponza. Anche il dopoguerra fu molto duro. Oltre alla terra, tentai la pesca al corallo, sempre a Sardegna, ad Alghero, assieme ad altre barche”.

Era un lavoro pesante?
“Pesantissimo, sotto un sole a picco dovevamo tirare a mano la lunga gomena alla quale era legato “’u ’ngegno”, con il quale grattavamo il fondale per recuperare “’i schiante i curalle” che venivano raccolte in un sacco a rete. A volte lavoravamo giorni interi senza pescare nulla.
Venne poi il 1957, quando mi sposai con Anna Maria Vitiello”.

Un matrimonio semplice, senza viaggio di nozze immagino.
“Una cerimonia semplice in chiesa, poi il pranzo a casa, a base di pastasciutta, galline, dolce fatto in casa, vino e spumante prodotto da noi. Poi la mia vita cambiò”.

Cioè?
“Divenni comandante di yacht. Una vita meno pesante, dove guadagnavo di più, anche quando non navigavo, il che durava per sei mesi all’anno. La prima barca che ho comandato è stata la “Tamori” dell’architetto Luigi Vietti. Uno splendido 34 metri, a vela e a motore, con il quale partecipavamo anche a gare veliche. Per la verità, non abbiamo mai vinto una gara, anche perché la barca non era proprio adatta, ma al proprietario non importava, si divertiva lo stesso. E ho continuato in questo lavoro fino al pensionamento. Questo lavoro, oltre a garantirmi maggiori risorse economiche, mi permetteva di stare in famiglia per molti mesi. E in questo tempo mi dedicavo anche alla terra e alla pesca hobbistica, ma non più costretto come un tempo”.

Come era la vita in questa frazione nella tua giovinezza?
“Era una vita semplice, lavoro, lavoro, lavoro. Ma anche piaceri sani come un pomeriggio in cantina a bere il vino che in questa zona dell’isola è tra i più pregiati. C’era una cantina a Punta Incenso, verso l’isola di Gavi, quello di Feola, una cantina, poi trasformatosi in bar, alla Piana, e quello di Angelino qui vicino, che il figlio Silverio porta avanti.
Vivevamo molto anche le ricorrenze religiose, una delle quali si è ormai perduta. In occasione della Madonna della Civita, il 21 luglio, per esempio, organizzavamo una processione in suo onore fino a Punta Incenso”.

La signora Anna Maria, durante tutta la breve intervista, fremente di poter esprimere anche lei delle valutazioni, interveniva con battute, proverbi e filastrocche a volte salaci a commento di alcuni episodi ricordati dal marito.
Mi è dispiaciuto non poterla sentire, a causa della mancanza di tempo, ma ripromettendomi di andarla a visitare quanto prima. Ho solo registrato la formula contro il malocchio, recitata senza esitazione, facendomi presagire altri tesori della memoria. Eccola qui:

Uocchie e maluocchie
porta ciech’ all’uocchie
tre uocchie vanno occhiata
tre sante vanno aiutate
Ave Maria e santa Maria,
all’uocchie se n’anna i’

Clicca per commentare

È necessario effettuare il Login per commentare: Login

Leave a Reply

To Top