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Zannonexit. “Uscire” nell’era della post-verità

di Vincenzo (Enzo) Di Fazio

 

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Dire che sono addolorato per quello che sta succedendo per Zannone è poco.
Sono incredulo, sfiduciato, preoccupato. E lo sono in maniera profonda perché il mondo di Zannone mi appartiene per esserci vissuto nelle età dell’infanzia e dell’adolescenza. Potete immaginare quale palestra sia stata per me quest’isola con la sua natura incontaminata che, avvolgendomi, mi ha portato a meditare su alcuni valori come la condivisione (un bene così non poteva non essere di tutti) e il rispetto (un bene così andava preservato).

Oggi “uscire” fa tendenza. Non importa da cosa, l’importante è separarsi. Da una comunità, da un organismo, da un partito, da un’associazione, da una famiglia… In politica economica hanno coniato la parola “exit”, l’abbiamo sentita per la prima volta in occasione della crisi greca, la stiamo sperimentando con l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa, l’auspica e la invoca Trump per gli altri paesi europei, ne sentiamo parlare un giorno si ed uno no per l’Italia da chi, come i populisti, la vuole fuori dall’Europa e dall’euro sbandierando soluzioni semplici per problemi difficili. Lo viviamo in politica con continue scissioni, strappi e separazioni.

Leggevo stamattina un articolo di Denise Pardo sull’Epresso a proposito di strappi e di come in epoche di scissioni e separazioni gli strappi si siano trasferiti dal mondo della politica a quello della moda. Nati sulla strada prima e nei magazzini globali poi gli strappi con cui si valorizzano (sic!) alcuni capi di abbigliamento come jeans, camicie e magliette rappresentano la manifestazione di un disagio ed il rifiuto delle regole. Scrive la Pardo che “lo strappo è un leit motiv, un filo rosso, un obiettivo. Ha preso il posto della pur violenta rottamazione, adesso non si sostituisce più, si taglia. Non si ricuce, è meglio rompere prima. E’ la nuova certezza di una visione cartesiana. Strappo ergo sum”.

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Collaborare, convivere, comprendere, avere comunanza d’idee, rispetto dell’altrui pensiero sono comportamenti che vanno stretti, che stridono con l’individualismo, l’arroganza, il pugno forte, il decisionismo alimentati, ahimé sempre più, dalla mancanza di cultura e dallo svilimento dell’interesse comune. Più che rimuovere le situazioni di incomprensione, più che lavorare per intervenire sulle situazioni anomale, più che sacrificare l’IO a vantaggio del NOI si preferisce annientare, annullare, chiudere porte, alzare muri, costruire barriere, parlare per slogan.

Qui non discuto dell’incontestabile esigenza di intervenire su Zannone per ripulirla, per ridarle dignità e protezione. Qui non discuto delle responsabilità umane, amministrative, gestionali che ci sono e che, comunque, quando avvengono le separazioni, non stanno mai da una sola parte.
Qui mi preoccupa il contesto in cui si è consumato lo strappo; mi fa impressione la reazione della gente, mi preoccupa il pensiero massificato, mi avvilisce il fatto che decisioni importanti vengono assunte senza pensare al dopo, senza programmi concreti, senza che si sia manifestata una briciola di dubbio sulle conseguenze della separazione, senza che il pensiero sia andato per un solo istante alla necessità di risorse finanziarie.

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La politica contemporanea ha preso l’abitudine di far largo uso dello strappo, per dare un taglio, per cambiare strada, appellandosi nel suo modo di operare più all’emotività della gente che alla verità dei fatti.

E mi fa specie che in tanti annuiscano senza porsi domande, incantati dalla narrazione.
E’ l’effetto dell’alienazione del proprio pensiero, della delega data per ignoranza, intendendo per tale la poca o limitata conoscenza dei problemi e dei fatti, circostanza che trasforma gli uomini pensanti in soggetti passivi.

La misura di questa superficialità la troviamo nelle affermazioni quotidiane affidate al canale dei social media che, come scrive Marino Niola (leggi qui [4]), nell’era della post-verità sostituiscono l’oggettività con l’opinione, l’attendibilità della fonte con la fascinazione della testimonianza.

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Ne consegue la semplificazione comunicativa che alleggerisce la responsabilità. Tutto si esaurisce in una piccola frase, in poche parole da cui trapelano sentimenti velati di odio (verso i responsabili del degrado e gli inetti), affermazioni di battaglie vinte (senza sapere che si è solo agli inizi), emissioni di sentenze o elargizioni di complimenti di ogni sorta, ecc. Ma il più delle volte, per schierarsi e per farlo sapere, ci si limita ad  un semplice “mi piace” o all’icona del pollice alzato (che va tanto di moda nell’era trumpiana).

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Di questo passo ci allontaniamo sempre più dalla conoscenza e ci avviciniamo sempre più ad un futuro dove per esprimerci su cose importanti saremo chiamati a farlo  con il pollice alzato o il pollice verso come avveniva nelle arene dell’antica Roma quando si doveva decidere della morte o della vita di un gladiatore. Senza la possibilità di porci domande.