Ambiente e Natura

A proposito di comunità ponzese

di Francesco De Luca

 

Cosa è che caratterizza una comunità di uomini? La domanda mi è sorta dopo un dialogo con Gennaro Di Fazio. Di cui non riferirò le affermazioni perché vorrei stimolare lui a riferirle, senza la mia intermediazione.

Da quella conversazione è nata questa riflessione che riguarda (manco a dirlo) la realtà della comunità ponzese. Ad essa intende infatti offrire argomenti perché rinnovi la sua vitalità.

Orbene, al di là degli specialismi dottrinali, il concetto di comunità si sostanzia di antropologia, di sociologia e di psicologia. Ovvero poggia su ciò che siamo in quanto individui, in quanto società e in quanto cultura.

Sono schematico per riuscire ad essere chiaro, a me anzitutto, e ai lettori.

Noi ponzesi nasciamo individualmente più figli di singole famiglie: gli Scotti, i Conti, i Mazzella, gli Aprea, i Vitiello, ecc. Individui vincolati familiarmente, con sentimenti e relazioni parentali. Che però furono costrette a cimentarsi, allorché si trapiantarono a Ponza, in un ring più allargato. Quello sociale. Perché furono impegnati a costituire un nucleo sociale.

Non solo. Furono sollecitati, civilmente, a sviluppare legami che dessero più solidità ai rapporti sociali, più qualità, più spessore. A divenire cioè comunità. La qual cosa impegnò, in modo più circostanziato, i rimandi, le attrattive e le espressioni culturali.

I fattori essenziali per tale operazione di fusione furono: la lingua (il dialetto) comune, il territorio, le esperienze partecipate (la storia).

Ognuno di questi fattori andrebbe visitato per specificarne il percorso. E sì, perché il dialetto non era unico (venendo i gruppi familiari da diversi paesi), bensì dovette uniformarsi ad un modello comune. Il territorio aveva caratteristiche residenziali diverse: il Porto fu architettonicamente costituito per un nucleo sociale, mentre il villaggio di Le Forna fu lasciato (eccetto che per la Chiesa e per i gradoni di Cala Inferno) alla libera iniziativa. Le esperienze partecipate furono molto saldanti perché uniformate e rispettose di due principi: l’ossequio alla religione cattolica e l’ossequio alle disposizioni regali.

Su questi capisaldi si sviluppò l’economia.

Nel tempo (dal 1700 ad oggi) sono avvenuti mutamenti di questo quadro, e la comunità ha orchestrato con i fattori sopra esposti a seconda degli sviluppi storici, delle situazioni economiche e di quelle sociali.

L’economia ha sempre risposto alla domanda di sussistenza, le regole sociali hanno seguito un percorso in cui la classe dirigente era di forestieri e comunque non dipendenti dalle fonti di lavoro paesano: agricolo e marittimo.

La cultura, questa è stato il vero, forte collante della comunità. Dialetto, tradizioni, riti, canti, costumi, ricette, cadenze stagionali. Questo ha rappresentato l’anima della comunità ponzese.

Del territorio non ne ho parlato perché esso, in quanto isola, è stato (ed è) racchiuso e impermeabile per definizione. Favorendo naturalmente lo spirito comunitario, tanto che, allorché si è artificiosamente espanso al di fuori (in continente), ha ancora di più accentuato artificiosamente l’aspetto identitario. A New York come a Formia ci si sente ponzesi.

Ma il collante culturale negli anni recenti non regge più alle sollecitazioni economiche. Queste sono più forti e, se spingono a lasciare l’isola, ottengono quanto è sotto i nostri occhi: l’isola disabitata d’inverno, il formarsi di gruppi ponzesi alla deriva.
E siamo così ai nostri giorni.

L’aspetto che più raffigura lo stato di una comunità lacerata nei tre fattori fondamentali (lingua – territorio – storia) lo offrono i ponzesi a Formia.

Non sono comunità perché non possono manifestare la lingua, né le tradizioni; si muovono in un territorio estraneo e vivono esperienze diverse.
A fare da controprova è la situazione della comunità a Ponza. La cui condizione culturale, a livello pubblico, patisce dinieghi, alterazioni, manomissioni in campo religioso e in quello civile.
In più, riluce, come specchio, la modalità di vita in continente: più ricca, più promettente, più accattivante, più degna.

In sintesi questo è il quadro che riesco a rappresentare. Chiaramente è lacunoso e, in più, evidenzia soltanto il mio pensiero. Mi riprometto di esprimere argomenti più dettagliati nel prosieguo del dibattito.

Mi aspetto che Gennaro riveli le sue argomentazioni e porti elementi che possano farci rispondere agli interrogativi:
a) è ancora viva la comunità ponzese ?
b) può risultare vitale l’insieme dei Ponzesi a Formia ?
c) quali elementi comunitari potrebbero/dovrebbero mettersi in moto per migliorare la situazione?

 

Appendice del 22 febbraio
Silverio Lamonica ha allegato al suo commento due foto che trovano posto nei commenti. Le presentiamo qui, insieme al testo che le accompagna (NdR)

In relazione al commento di Franco Zecca.
Alle pareti del mio salotto a Formia.A colori Dino Ciuffini: Il porto di Ponza. Aristide Baglio: La Masseria e Palmarola.
In b/n Dino Ciuffini e in basso Herbert Brether
Silverio Lamonica

8 Comments

8 Comments

  1. Silverio Tomeo

    20 Febbraio 2017 at 13:43

    E’ un argomento oltremodo complesso quello della comunità, ma in essenza si oscilla tra un’idea di “comunità organica” su base identitaria, religiosa, di costumi, di etnia, e allora siamo al nazifascismo, più o meno, ed invece un’idea di comunità democratica, porosa, multietnica, pluriculturale, di senso e di responsabilità, solidale, ed allora è di sinistra. La comunità residente (manco dall’ormai lontano 1993) deve essere stata sottoposta a grossi guasti se avete il sindaco che avete, se avete le credenze religiose e settarie che ancora avete, se avete il microclima politico che avete, se avete l’andazzo che avete, o no? Questo è il dilemma… Orsù! Riscossa isolana e rinascita ponzese, ma senza regressioni infantilistiche e nostalgiche del bel tempo che fu, ammesso che fu… Preparate una nuova primavera, se ne avete le forze e siete davvero consapevoli della mutazione antropologica della comunità residente e dello spiazzamento delle comunità della diaspora migrante. Una “comunità di destino planetaria”, la chiama Edgard Morin, nel suo strenuo e generoso tentativo di un nuovo umanesimo, che l’epoca del post-umano sta purtroppo rendendo utopico.

  2. Sandro Russo

    21 Febbraio 2017 at 08:55

    Forse posso portare qualche elemento utile alla discussione in quanto partecipe, nella mia formazione, di due realtà / comunità diverse.
    Essa infatti – infanzia e adolescenza – si è svolta a cavaliere di due mondi.
    Fino agli anni dell’università il mio anno si divideva così: nove mesi a Cassino (la casa dei miei genitori) e tre mesi sull’isola (dai nonni materni e poi con le zie). Con differenze impressionanti, e tutte a favore di Ponza.
    Di fatto mi sono sentito sempre più “ponzese” che “cassinese” (Cassine’, si’ turnate? – mi apostrofava sempre Aniello De Luca!).
    Fin qui sembrerebbe ovvia la discrepanza tra il periodo di studio e di ‘normale’ esistenza e quella ‘eccezionale’ della vacanza e dello svago. Solo che anche a Cassino vivevo in campagna (a 3 km dalla città); le avventure – non marinare ma campagnole – e gli svaghi c’erano anche là.
    La lingua cambiava – doveva cambiare! – nel giro di un giorno al cambio di residenza, pena gli sfottò delle amici, dall’una e dall’altra parte.
    Cambiavano anche, da un giorno all’altro, il mondo sensoriale, i suoni, gli odori, i codici di comportamento. Nella mia famiglia di provenienza i contatti fisici e l’emotività erano improntati al riserbo; al contrario con la famiglia di Ponza gli abbracci, il bacio della buonanotte e al risveglio erano abituali… Il cambio – di registro, di atmosfera – iniziava già alla discesa dal vapore, con la barba pungente di mio nonno, sempre presente all’arrivo dei nipoti; continuava quando la mia testa di bambino affondava nel vasto petto di zia Lucia in un caldo abbraccio, al ristorante zi’ Capozzi, la prima tappa all’arrivo sulla strada per Sant’Antonio, via Nuova, dove stavano i nonni, e poi le feste delle zie all’arrivo e l’ansia di sapere chi era già a Ponza, dei miei amici.
    Allora sì che mi sembrava di tornare a casa, non quando tornavo a Cassino!

    C’è sempre stato – per me bambino, non so se ora si è perso (sarebbe una perdita incolmabile!) – un senso di appartenenza a qualcosa di più grande – una comunità? Dovunque sentivo un’accettazione (unita ad un controllo discreto che gli adulti esercitavano sui bambini); quando ero in un contesto estraneo (alle Forna, per dire), c’era sempre chi chiedeva: A chi appartiene? – A chill’ ’i Ciccill’ Zecca – era la risposta.

    Alle altre connotazioni di “comunità” indicate da Franco – “lingua territorio storia” – aggiungerei questi aspetti psicologici-formativi individuali, che solo vagamente hanno a che fare con la nostalgia (infatti, nel mio piccolo, la nostalgia di Cassino non mi prende mai; eppure ci ho vissuto molto più a lungo!)
    Controprova ulteriore – semmai ce ne fosse bisogno -, appena se ne è presentata l’opportunità ho partecipato al progetto Ponzaracconta, mica ho mai pensato a Cassinoracconta!

  3. Fausto Balzano

    21 Febbraio 2017 at 11:19

    Ho letto con molta attenzione la riflessione di Francesco De Luca scaturita dall’incontro tra lo stesso ed il Dr. Di Fazio e, pur non avendo rivelato il pensiero del dr. Di Fazio che da ottimo e stimato professionista e amante profondo della sua isola e della vita che qui ha vissuto, immagino sia in perfetta consonanza con quanto esposto da Franco, non posso che condividerlo.
    Altrettanto condivisibile è il pensiero del Sig. Silverio Tomeo che non ho il piacere di conoscere.
    E’ prendendo spunto da queste due riflessione che ne voglio proporre anche una mia, del tutto personale e certamente non da molti condivisibile.
    Giustamente Franco afferma che il senso di “Comunità ponzese” scaturisce da elementi antropologici, sociologici e culturali presenti nel gruppo in quanto costituito da “individui” che fanno parte di una società detentrice e di conseguenza portatrice della propria cultura.
    Certo, in un mondo fortemente globalizzato conservare la propria identità antropologica (senza scomodare il brutto concetto di appartenenza a razze diverse ormai superato dalla nobile affermazione che ogni uomo, ovunque viva e qualunque sia il colore della sua pelle appartiene alla “razza umana”) appare molto difficile da sostenere. Anche l’elemento sociologico appare molto difficile da salvaguardare: oggi pur essendo nati in posti diversi ci sentiamo cittadini del mondo. Anche l’elemento culturale sembra essere non più specificamente autoctono ma si integra con le culture di altri popoli a cui noi ci affacciamo o che si affacciano alla nostra porta.
    Ebbene, nonostante questa continua integrazione fra gli elementi che caratterizzano la vita quotidiana in diverse parti del mondo, tutti gli esseri, pur cercando attraverso le varie e diverse forme di integrazioni di migliorare la propria esistenza, restano fortemente legati alle origini.
    Infatti il venire al mondo in un determinato posto, viverne gli usi, condividerne le manifestazioni religiose, ricordarne avvenimenti storici propri del luogo, e ciò fino a quando giunti all’età del discernimento, per ragioni diverse, si decide di lasciare il proprio luogo di origine, temprano fortemente lo spirito dell’individuo che, pur adattandosi alla vita della nuova realtà non se ne sente parte integrante e riesce a sentirsi comunità solo quando, con altri individui che portano nello spirito gli stessi sentimenti, ritorna al “patrio suolo”.
    Ecco perché non bisogna distruggere ciò che di ponzese negli anni passati si è creato introducendo abitudini, normative, situazioni, manifestazioni che per il solo fatto di essere mondane e praticate nella maggior parte del “Bel paese” devono entrare a far parte del quotidiano ponzese.
    Ponza deve vivere di luce propria, ne ha tutte le peculiarità, non deve copiare niente a nessuno, la sua insularità non deve essere depauperata attraverso azioni dettate solo a soddisfare l’esigenza di offrire un’immagine da rotocalco che giova a pochi se non a nessuno. Ponza va valorizzata attraverso l’offerta delle sue bellezze che giorno per giorno vengono sottratte alla fruizione pubblica per diversi vincoli e dinieghi come da Franco evidenziato. Ponza, in quanto isola, necessita di collegamenti rapidi e funzionali che senza penalizzare gli abitanti offrano anche ai turisti la possibilità di muoversi adeguatamente. Di Ponza, e di conseguenza dei ponzesi, vanno rispettate e sostenute le tradizioni, le attività economiche originarie ormai completamente scomparse quali la pesca, l’agricoltura e il turismo attraverso la richiesta pressante di normative che deroghino da certi vincoli assurdi ed inconciliabili per una siffatta comunità.
    Qui vorrei aprire una piccola parentesi che qualcuno forse giudicherà assurda e certamente non condividerà, su una questione che penso sia ora di cominciare ad affrontare.

    Nella nostra bellissima Costituzione che, grazie a Dio e alla maggioranza del popolo sovrano, ci è stata restituita ancora integra nella sua essenza voluta dai Padri Costituenti, pur assicurando l’unità e l’integrità della Repubblica, vengono riconosciute e salvaguardate le autonomie locali così come vengono salvaguardate e riconosciute le associazioni che promuovono lo sviluppo ed il progresso individuale e sociale delle categorie rappresentate.
    Ebbene i nostri politici a livello locale, provinciale, regionale e nazionale, senza proclami roboanti, senza minacce e/o ultimatum, si attivino, con dati alla mano, studi seri (non con programmi di fattibilità redatti da studi, istituti, osservatori, ecc. finanziati di volta in volta dalla Regione, dall’Europa, e via discorrendo a seconda della convenienza politica del momento) per chiedere alla Regione di offrire servizi di trasporto adeguati, all’Europa di rendersi conto che una certa agricoltura e attività peschereccia sono fuori da ogni logica; che alcuni vincoli ambientali imposti dall’alto creano più danni che salvaguardia all’ambiente che si vuole tutelare.

    Come diceva il Sig. Tomeo non ci dobbiamo lasciar prendere dalla nostalgia, ed io aggiungo: tanto il passato che a noi è parso luminoso e glorioso perché condito dalla nostra giovinezza non potrà mai ripetersi; dobbiamo però aspirare a nuove primavere, quelle sì, essendo cicliche, potranno tornare e dare nelle estati, anch’esse cicliche, copiosi frutti.

  4. Enzo Di Giovanni

    21 Febbraio 2017 at 14:58

    In attesa di Gennaro, ieri sera avevo pensato ad un piccolo contributo, da inserire oggi. Vedo però con piacere che altri amici, prima di me, hanno avuto la stessa idea. Per cui, sempre in attesa di Gennaro (“e mo’ te tocca!”), provo ad aggiungere un mio tassello.

    Rimarco un passaggio del pezzo di Franco De Luca: “del territorio non ne ho parlato perché esso, in quanto isola, è stato (ed è) racchiuso e impermeabile per definizione”.

    Sottintende ad una territorialità evidentemente non solo fisica, ma addirittura metafisica. Ce ne dà prova Sandro, nel partecipare un senso di appartenenza non comune, e non riscontrabile altrove. Io però non credo che lo spirito comunitario che ci identifica nasca dall’impermeabilità dell’isola, dal suo essere appunto fisicamente limitata, con confini spazio-temporali netti, evidenti. O perlomeno, non è solo questo. Se così fosse sarebbe ben poca cosa, assimilabile a quel provincialismo con cui di solito si tende ad etichettare l’italiano in genere, chiuso nel suo ghetto culturale prima che territoriale. E che, come ci ricorda Silverio Tomeo, spesso genera mostri.
    Io mi intestardisco a credere che vi sia dell’altro.
    E per usare una facile metafora, probabilmente questo ‘altro’ è legato al fatto che abbiamo sì dei confini, ma anche un orizzonte infinito.
    La riprova di questo apparente ossimoro è che i ponzesi non hanno mai pensato di costruire muri, oggi tanto di moda, ma al contrario, dimostrato un’apertura verso lo “straniero” spesso non ricambiata da eguale moneta.
    Tra l’arroccamento nazional-socialista-leghista, che non è nel nostro DNA, e la resa incondizionata alla colonizzazione subita dall’esterno, qual è la terza via?
    La cultura è stata il collante della nostra comunità, quando si sentiva tale, aggiunge Franco.
    E’ vero, e ne abbiamo parlato più volte: non dimentichiamo che Ponzaracconta esiste proprio per preservare ed attualizzare questa necessità identitaria. Era collante perché nella vita isolana forgiava saperi indispensabili per la sopravvivenza. E questi saperi, che non sono solo conoscenze tecniche e lavorative ma anche un modo di essere, di stare al mondo, nella condizione di migrante costituivano il veicolo, l’energia con cui andare verso l’ignoto senza paura di perdersi, senza contaminarsi troppo con altre culture.

    Il problema è che viviamo non solo nell’era della globalizzazione, ma addirittura oltre: nell’era della post-verità, cioè quella in cui non solo le conoscenze sembra non servano più a nulla ma persino la verità viene “confezionata” a tavolino a seconda delle esigenze di questo o quel portatore di interessi. In cui è passato il pericoloso concetto che siamo costretti ad adeguarci a modelli imposti dall’esterno. In cui insomma la comunità ponzese sembra non essere in grado di essere tale, cioè di formulare un progetto politico e sociale proprio.
    Sembra.
    Perché poi i quesiti che si pone Franco vanno testati sul campo: è troppo semplicistico sperare in una modernità che faccia tesoro dei saperi di cui parliamo senza svenderli al “nuovo che avanza”, che spesso è banalmente vecchio? Sono ottimista, e mi riallaccio all’opinione espressa poc’anzi da Fausto. Un’altra Ponza è possibile: abbiamo un potenziale umano decisamente migliore di come lo si vuole far apparire.
    Finalmente ce ne stiamo rendendo conto.

  5. Franco Zecca

    22 Febbraio 2017 at 16:58

    Nei lontani anni ’60/’70, e non più dopo, per quello che ne so io, sia a Latina, dove tuttora vivo, sia a Roma, per sentito dire, c’erano due folte comunità di ponzesi doc, che per svariati motivi avevano scelto di vivere in queste due città, ed ogni tanto si riunivano con le rispettive famiglie.
    Erano convivi che mettevano in risalto la volontà di ognuno di loro di confrontarsi, di aiutarsi, e, perché no, di divertirsi nel modo che sa fare solo un ponzese.
    C’era di che parlare tra di loro: molti erano occupati in lavori in ambito governativo e tutti erano sempre ben disposti ad aiutare il loro compaesano residente nell’isola qualora ne avesse avuto bisogno, chiaramente nei limiti del loro “campo di lavoro” per dirla alla ponzese e nelle loro possibilità di attuazione.
    Gli stessi poi, d’estate o nelle altre occasioni, ritornavano a Ponza per lunghi periodi di vacanza e rivivevano la loro ponzesità, estraendone il succo più vero da far emigrare con loro alla fine del periodo, cosicché non si sarebbe mai spezzato quel cordone ombelicale con l'”amato scoglio”.
    Oggi tutto questo non è più possibile, per i motivi già delineati da Franco sia per i ponzesi molto numerosi che svernano a Formia, sia per quelli che vivono a Latina o a Roma o in qualsiasi altra città che si dicano ponzesi doc.
    Non c’è comunità perché ognuno vive la propria vita e solo in apparenza sembra legato a Ponza per via del dialetto, per via delle tradizioni, per via del reciproco aiuto; in effetti, secondo me, ciò che unisce il ponzese, in continente, è solo la nostalgia che appare ogni volta che ci si frequenta: “…t’arricuòrd’?”
    Tuttavia… sfido chiunque a dimostrare che nelle case di questi ponzesi (vecchi o giovani, di altri tempi o di oggi) non ci sia qualcosa che li leghi a Ponza: una statuina di San Silverio, una o più foto con vedute di Ponza, un piatto particolare da mangiare nei riti e nei modi “alla ponzese”.
    Ecco “comunità”, secondo me, è questa unione tra il vecchio ed il nuovo, senza perdere di vista quello che di buono ha fatto il vecchio e quello che farà di esempio il nuovo.

    • Silverio Tomeo

      22 Febbraio 2017 at 17:34

      Difatti le vedute di Ponza messe dalla buonanima di mia madre ce le ho ancora sui muri di casa, inclusa quella dove si vede la chiesa sul porto dove fui battezzato, mentre quelle del santo le ho messe discretamente da parte. Non solo! Appena posso mi cucino, per me e gli ospiti, i famosi totani ripieni…
      La società postmoderna esalta l’individualismo e frantuma la comunità, cito per tutti “Voglia di comunità” di Zygmunt Bauman, che nel titolo originale sta come “Comunità scomparsa”. Ma attenzione! La comunità non è la famiglia, neppure la famiglia allargata a tutti gli incroci e le parentele, anzi il familismo può essere un altro fattore che uccide la comunità…
      Il “cordone ombelicale” l’ho tagliato alle soglie dei 40 anni, cioè della maturità. A volte l’isola la sogno ancora, perché fa parte, si vede, del profondo dell’anima. I ponzesi residenti, ma veri residenti, spesso reclamano le loro prerogative rispetto ai “fuoriusciti”, ed hanno ragione, in parte, ma spesso dimenticano che questo comporta una loro responsabilità enorme per come si gestisce la vita, la comunità, l’ambiente, sullo “scoglio”. Se si acconciano a svendere, privatizzare, prostrarsi a politici scadenti e pittoreschi, a deturpare l’ambiente, rendono un cattivo servizio al futuro della loro prole e a noi che ancora sogniamo l’isola-madre.

  6. Silverio Lamonica1

    22 Febbraio 2017 at 19:16

    In relazione al commento di Franco Zecca.
    Alle pareti del mio salotto a Formia.
    A colori Dino Ciuffini: Il porto di Ponza. Aristide Baglio: La Masseria e Palmarola.
    In b/n Dino Ciuffini e in basso Herbert Brether
    Silverio Lamonica

    Le foto sono riportate in calce all’articolo di base (la Redazione)

  7. Pasquale

    23 Febbraio 2017 at 13:22

    A proposito di comunità
    A casa mia non mancano foto o quadri o diapositive dell’Isola (penso, d’altra parte, che anche in altre case ci sia qualcosa che appartenga alle origini di chi le occupa). Spesso, prendendo in braccio i nipotini e avvicinandomi a queste “icone”, indico nomi e vado dal particolare al generale o viceversa. Questo “rito” lo faccio così volentieri che mi sembra di trasmettere ai piccoli le mie stesse sensazioni. Poi chiedo agli stessi di ripetere i nomi.
    Di contro mi è capitato di incontrare giovani che “insistono” per parecchio tempo sull’Isola. Trovandomi a citare nomi di angoli o spiaggette mi sono accorto che mi guardavano stupefatti, come se quelle non appartenessero all’Isola. Anzi mi hanno guardato come si guarda un “vecchio rimbambito”. Non voglio entrare nello specifico, ma voglio chiedere a tutta la comunità: dove sono le origini? Quando facevamo forza sui remi, potevamo vedere o, per meglio dire, osservare anche le pietruzze colorate, l’alga ondeggiante ed il pesce guizzante. Come le pietre, dure, ce le portiamo dentro; ci guardiamo intorno con occhi distratti e, per quanto mi riguarda, dovunque vado non posso non fare termini di paragone con le mie origini.
    Oggi, a bordo di potenti motoscafi, ci inebriamo al vento (ma questo fa socchiudere gli occhi) e domani si solleveranno in aria con i droni: la velocità a discapito dell’osservazione, la superficialità a discapito della riflessione o, per meglio dire, della ponderazione.
    Mi sovviene un ennesimo paragone o metafora (chiamatela come vi pare). Una volta le piante avevano salde radici che affondavano nel terreno da cui erano nate o nel quale, ancor piccole, erano state trapiantate. Oggi so di molte piante che hanno sottili radici che vanno verso l’alto e prendono nutrimento da gocce di acqua mista a concimi sintetici, trasportata in sottili tubi neri di gomma. Per non dire di tutte quelle piante svèlte con la forza, “soppiantate” dal rozzo cemento. Poi ci lamentiamo dei danni!

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