Ambiente e Natura

A proposito dei “saperi idrici” nell’isola di Ponza dall’età romana ad oggi (2)

di Francesco De Luca

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Continuo il dialogo col dottor Gallìa. Lo ringrazio delle precisazioni apportate – L’acqua a Ponza, da sempre strumento politico – e lo invito a seguire il filo delle riflessioni indotte dal suo lavoro sui ‘saperi idrici a Ponza’.

Il professore Arturo Gallìa distingue nella storia degli insediamenti umani a Ponza tre fasi:
a – la prima territorializzazione,
b – la nuova territorializzazione,
c – la ri-territorializzazione.

La prima territorializzazione fu quella effettuata dai Romani. I quali dotarono la comunità isolana lì stanziatasi di un sistema urbanistico civile composto da porti, ville, cisterne, acquedotti, dighe. Furono scelti i luoghi in cui edificare ville sontuose (sul colle della Madonna e a Santa Maria), dotate di acqua, incanalando quella pluvia in cisterne. Furono costruiti porti (uno adiacente all’attuale, uno a Santa Maria – a levante, uno a Chiaia di luna – a ponente) comunicanti attraverso strade e tunnel.

Di questa prima territorializzazione colpisce la raccolta puntigliosa dell’acqua. Due le fonti: una sorgente, esistente a Le Forna (Cala dell’Acqua). Individuata già dai greci essa fu oggetto di incanalamento e portata nella costa di levante (Cala Inferno). Da lì fu fatta arrivare, attraverso un ingegnoso e precario acquedotto, fino al porto di Circe (Santa Maria ). Ingegnoso perché ottenuto traforando tutta la costa da Cala Inferno a Santa Maria, precario perché soggetto a frane della parete rocciosa. Fu sostituito da un sistema di raccolta di acque pluvie discendenti da monte Pagliaro e da Tre Venti.

La seconda fonte fu individuata dall’acqua piovana che dai colli scendeva a mare. Essa veniva chiusa in cisterne e, dopo decantazione, offerta alla fruizione delle navi nel porto (marecoppa). Identicamente a quanto avveniva nel porto al di sotto della zona più trafficata (al Mamozio). Lì era l’acqua del monte Guardia, opportunamente instradata e raccolta nelle cisterne (della Parata e del Corridoio).

La cisterna di via Corridoio

La seconda fase, la nuova territorializzazione, riguarda la colonizzazione borbonica. Questa dovette affrontare diversi problemi rispetto al bisogno d’ acqua.

La zona dell’isola dove la monarchia concentrò gli sforzi architettonici (la zona storica del porto) poté godere delle cisterne romane. Non tutte ma di alcune sì. La Torre aveva la sua. Il complesso delle abitazioni del Comandante civico e delle sue guardie poteva usufruire del pozzo in via Comandante (esistente e non funzionante). Le abitazioni dei pescatori del Corso Pisacane, utilizzavano le acque di un pozzo ubicato in via Corridoio (esistente e funzionante fino a pochi decenni fa per esperienza personale). Vincenzo Bonifacio ricorda, nel suo commento sul Sito, che altre cisterne romane fossero utilizzate come riserve d’acqua dai coloni che presero dimora nelle loro vicinanze (sulla Dragonara).

Ma gli insediamenti dei coloni disseminati negli appezzamenti degli Scotti, dei Guarini, dei Conti, di Santa Maria, come si regolavano? Imitarono i Romani. Scavarono accanto alla casa una cisterna (piscina), incanalandovi l’acqua piovana dei tetti.

Giustamente Gallìa afferma che i coloni coniugarono le loro conoscenze di contadini con quanto videro ideato dai Romani. Cosicché per ogni nucleo familiare un pozzo d’acqua piovana. Lì dove era possibile, s’intende, ovvero dove la cisterna era realizzabile. Ma la procedura veniva ripetuta anche nei terreni agricoli. Cisterne (piscine) fiorirono al Fieno, sugli Scotti, sui Conti, a Le Forna. Dovunque l’acqua piovana potesse essere instradata, lì veniva creato un serbatoio nella roccia (sempreché essa fosse lavorabile!).

Vecchia casa di Ponza, località “i Guarini”. Visibile il sistema di canalizzazione dell’acqua piovana
(dal libro “E’ stata dura” di Giuliano Massari)

L’attuale ri-territorializzazione come soddisfa il suo bisogno d’acqua? Dal dopoguerra in poi c’è stata la corsa all’acqua corrente. Soddisfatta da una rete idrica comunale supportata da due serbatoi (acquedotti), uno sulla Dragonara e uno a Le Forna. Soluzione inadeguata, oggi. Tanto è vero che le corse delle navi-cisterna in estate, allorquando il consumo è amplificato dalle presenze turistiche, devono essere giornaliere. La pressione turistica ha generato soltanto una frenetica sollecitazione in direzione del consumo non dell’approvvigionamento. Soluzioni strutturali più idonee alle esigenze reali attendono d’essere prese. Un consumo abnorme per un approvvigionamento insufficiente. Anche perché le piscine familiari sono state dismesse o utilizzate per altri fini, nelle zone ad alta densità demografica.

In aiuto sono venuti i depositi, in plastica o in metallo. Alimentati esclusivamente e ininterrottamente tramite la rete idrica comunale.

Nelle zone decentrate le piscine familiari sussistono a malapena e non sono considerate una risorsa sufficiente. Sono ad acqua piovana. Proprio quella che, opportunamente incanalata e depositata, rese Ponza un’isola ricchissima d’acqua dolce!

Forse sarebbe il caso di far tesoro dei saperi idrici e pensare ad un ritorno (non esclusivo) alle cisterne familiari. Fonte di umidità talora e perciò eliminate, allorquando insistevano al di sotto del pavimento di casa, ma non certo se ubicate all’esterno, nel cortile. Alimentate dall’acqua piovana dei tetti potrebbe alleggerire le bollette del consumo civico, oggi esose.

Esempio di recupero e di valorizzazione dell’accesso ad una “piscina” ponzese

Insomma penso che varrebbe la pena immaginarsi un piano di approvvigionamento idrico che contempli anche l’uso delle piscine familiari. Sarebbe un ulteriore passo verso una forma ‘tipica’ di domicilio isolano. Del tutto distante e opposto all’utilizzo del ‘dissalatore’ che manomette il delicato equilibrio ecologico dell’isola.
Il dissalatore infatti ottiene risorse a danno di altre in modo tale che le risorse sono inefficaci e i danni sono irreversibili.

3 Comments

3 Comments

  1. arturogallia

    20 Febbraio 2017 at 09:31

    Condivido in pieno le riflessioni (però, la prego, non mi chiami professore). Per altro, di pari passo va anche la questione dei terrazzamenti, che è altrettanto interessante e meriterebbe una maggiore attenzione, anche istituzionale (ci sono milioni di euro di finanziamenti…).
    Forse non sarei così categorico sulla questione dissalatore: la – splendida, a mio avviso – proposta di recupero delle opere idrauliche domestiche non esclude necessariamente l’uso del dissalatore.
    A proposito del dissalatore, sarebbe bene che le istituzioni aprissero un vero tavolo di concertazioni con la popolazione locale e prendessero spunto da casi di successo in contesti simili. Non è necessario costruire opere enormi e accentrate, ma esistono soluzioni a scala più ridotta (dimensioni di un container) e replicabili in più punti sull’isola e messi in rete tra loro e con il servizio idrico… ma la storia è lunga.
    Bellissima la carta di Pasinati proposta in apertura!

  2. Francesco De Luca

    20 Febbraio 2017 at 20:58

    Mi collego alle affermazioni del dottor Gallìa a proposito del dissalatore. Per dichiarare in modo fermo e perentorio come per l’isola di Ponza la presenza del dissalatore sia da considerarsi una sciagura. Perché, pur non mettendo in dubbio le conoscenze al riguardo del dottor Gallìa, è prioritario a Ponza preservare l’equilibrio ecologico. Molto precario e molto fragile.
    Il dissalatore, in quanto funzionamento che scarica scorie nell’acqua, viene ad inquinare le coste dell’isola già soggette a:
    – Dissesti idrogeologici;
    – Zone per la protezione della posidonia;
    – Zone interessate da porti;
    – Zone di balneazione;
    – Zone di pesca.
    Il dissalatore, di qualsiasi genere, formato e portata, mi appare nefasto.

  3. arturogallia

    21 Febbraio 2017 at 11:23

    Non sarei così drastico nei confronti del dissalatore, anzi. Ormai ci sono soluzioni tecnologiche a basso-bassissimo impatto ambientale, senza conseguenze sulle fragili coste.
    L’obiettivo primario, a mio avviso, dovrebbe essere quello di ridurre o eliminare del tutto la dipendenza dell’isola dalla terraferma per quanto riguarda l’approvvigionamento idrico. Che sia il dissalatore, un acquedotto sottomarino, o una soluzione integrata, alla fine poco importa: l’importante è che si faccia.

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