Ambiente e Natura

Poesia. Spiegarla si può? (1). Brecht, Walter Siti

proposto da Sandro Russo

 

Cominciamo da qui. Dalla definizione di poesia fornita da Wikipedia (parte di una enunciazione più complessa):
“La poesia (dal greco ποίησις, poiesis, con il significato di “creazione”) è una forma d’arte che crea, con la scelta e l’accostamento di parole secondo particolari leggi metriche (che non possono essere ignorate dall’autore), un componimento fatto di frasi dette versi, in cui il significato semantico si lega al suono musicale dei fonemi. La poesia ha quindi in sé alcune qualità della musica e riesce a trasmettere concetti e stati d’animo in maniera più evocativa e potente di quanto faccia la prosa, in cui le parole non sottostanno alla metrica.

Siamo attratti dalla poesia, ci lusinga eppur ci sfugge…

“Coloro che pensano che la poesia sia disperazione
 non sanno che la poesia è una donna superba
 e ha la chioma rossa” (Alda Merini)

Klimt. Danae

“La poesia è una sorta di miraggio.
Appare accessibile ma non lo è.
E’ una Signora assai difficile, bisogna trattarla con garbo e finezza, ma anche con vigore e rabbia.
Nel corso della storia ha tratteggiato amori, glorificato eroi, esaltato la natura, insegnato il coraggio e la rassegnazione, condannato potenti e intellettuali…” (Silveria Aroma: leggi qui).

Questo sito ha una ricca sezione dedicata alla poesia: poesie legate al mare, poesie d’amore; “poesia” tour court [nel menu in Frontespizio, nel riquadro in alto a sinistra alla voce poesia corrispondono 61 schermate (x 7 articoli ogni schermata): 427 (!) poesie o articoli in vario modo correlati ad essa].

Poesia. Rosa

Se siamo ancora qui a parlarne, del tutto chiaro il significato di poesia non ci è.
La poesia è difficile eppure semplicissima, arriva diretta al cuore ma poi lascia delle tracce durature… un secondo tempo della lettura.

Ci siamo posti il problema di come leggere la poesia, facendoci accompagnare da qualche libro, da qualche film, da qualche esempio…

***

Per tutto il  2014 Walter Siti ha tenuto su “Repubblica” una rubrica settimanale dal titolo “La poesia del mondo”: “versi prelevati dall’antica lirica greca fino alla contemporaneità, attraverso il misticismo medievale e il barocco seicentesco, e poi il simbolismo e oltre.

Siti ha raccolto per Rizzoli tutto questo materiale, in un libro intitolato La voce verticale. 52 liriche per un anno.

Siti. La voce verticale. Copertina


– La scelta (non meno del commento) dice qualcosa di me –
scrive l’autore nell’Introduzione – e non sono sicuro di sapere cosa.

Nel libro figurano anche alcune pagine inedite, intitolate Cinque rimpianti, e dedicate ad altrettanti autori rimasti fuori da La poesia del mondo. Uno dei cinque è Brecht: pubblichiamo qui i suoi versi insieme al commento che li accompagna, ringraziando Rizzoli per averceli forniti [versione ripresa da Gianluigi Simonetti: “Coltivare il proprio giardino” del 29 settembre 2015 – http://www.leparoleelecose.it/?tag=la-poesia-del-mondo]
Quella che segue è la presentazione di una poesia di Brecht, come esempio del modo di procedere di Walter Siti nella sua raccolta.
C’è un’isola, un figlio, un padre, una pianta sofferente per il gelo… e una grande tragedia che tutti sovrasta. Come si vede tutti elementi universali e ancora attuali…

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Primavera 1938

Oggi, mattina di Pasqua.
Un’improvvisa bufera di neve s’è abbattuta sull’isola.
Tra le siepi verdi c’era neve. Mio figlio piccolo
m’ha condotto a un alberello d’albicocche lungo il muro
distogliendomi da versi in cui indicavo a dito i
responsabili d’una guerra che può sterminare
il continente, quest’isola, il mio popolo, la mia famiglia
e me. In silenzio
abbiamo messo una tela di sacco
sull’albero infreddolito.

[Bertolt Brecht, da Raccolta Steffin]

 

Frühling 1938

Heute. Ostersonntag früh
ging ein plötzlicher Schneesturm über die Insel.
Zwischen den grünenden Hecken lag Schnee. Mein junger Sohn
holte mich zu einem Aprikosenbäumchen an der Hausmauer
von einem Vers weg, in dem ich auf diejenigen mit dem Finger deutete
die einen Krieg vorbereiteten, der
den Kontinent, diese Insel, mein Volk, meine Familie und mich
vertilgen mag. Schweigend
legten wir einen Sack
über den frierenden Baum.

Ghiaccio

L’isola di cui si parla nel testo è quella danese di Fünen, dove (nel paesino di Svendborg) Brecht trascorse i primi cinque anni d’esilio dopo esser fuggito dalla Germania nazista. Nel 1938 la domenica di Pasqua cadde il 17 aprile: è passato appena un mese dall’annessione dell’Austria al Terzo Reich, l’Europa sta precipitando in quel vortice di vigliaccherie e connivenze che porteranno alla seconda Guerra Mondiale.
Aprile, in Danimarca, può ancora riservare momenti di freddo intenso: nevicate improvvise che gelano le gemme già spuntate e mettono a rischio gli alberi da frutto. Ma in quel 1938 al gelo reale si aggiunge una simbolica glaciazione storica: alla Resurrezione pasquale si oppone una minaccia di guerra che può sterminare un’intera civiltà.
In quella stessa primavera (più tardi, ai primi di maggio) Hitler verrà in visita a Firenze e Montale ne sarà così colpito da scrivere La primavera hitleriana: anche lì ci sarà una nevicata, ma sarà una simbolica e stridente invasione di farfalle bianche sul Lungarno, sfrigolanti sotto le ruote dei cingolati. Una miriade di ali frantumate e un poeta che testimonia l’inferno, tra attrazione del grottesco e lancinante disprezzo.

La poesia di Brecht non è (quasi) mai simbolista o analogica, non lascia che i significanti prevalgano sul significato, l’ideologia viene sempre prima del testo; per lui l’occasione non è misteriosa epifania ma situazione esemplare, apologo ragionato.
Amava il freddo e il gelo proprio perché gli ricordavano la lucidità mentale, la crudeltà necessaria a prendere posizione in un’epoca terribile. Qui non può sottrarsi all’allegoria della “bufera” storica, certo ricorda il volterriano invito a coltivare il proprio giardino, forse perfino risente dell’opposizione romantica tra l’eternità della natura e il meschino affannarsi degli uomini.
Ma quel che conta di più, per lui, è la lezione marxista: il primato della prassi sulla teoria (nella sua casa di Svendborg aveva inciso sul muro il motto “la verità è concreta”).
E’ un marxismo filtrato attraverso la saggezza cinese, che lo affascinava in quel periodo di letture: l’uomo che copre il povero alberello mentre ogni speranza razionale sembra svanita potrebbe anche essere un vecchio monaco zen.

Stefan, il suo figlio quattordicenne, lo trascina verso il piccolo albicocco distogliendolo da quello che per un intellettuale-scrittore potrebbe sembrare il compito più importante: scrivere una poesia dove si “indicano a dito”, quindi senza fare sconti, con nomi e cognomi, i responsabili della ormai inevitabile guerra. Un’opera engagée, come ne aveva scritte tante, e che gli avevano fruttato la dolorosa gloria dell’esilio. I versi 5-7, con la loro sintassi aggrovigliata, gli enjambements violenti, l’accumulazione insistita, rappresentano bene l’istinto parolaio dell’intellettuale, sia pure gonfio di una retorica a fin di bene: non solo Hitler, ma “tutti quelli che” contribuiscono alla guerra: i capitalisti occidentali, i borghesi ipocriti. Gli ultimi tre versi, anzi due e mezzo, dopo la cesura fortissima del v. 8, oppongono a quel diluvio di parole-di-denuncia un gesto semplice, da compiere in silenzio (in versi brevi, con una sintassi elementare); è questa la vera poesia che si doveva scrivere quel giorno, non l’altra lasciata a mezzo.

E’ un Brecht intimo, privato: lo “junger Sohn” e il diminutivo riservato all’albicocco nel v. 4 stabiliscono un evidente parallelismo tra il ragazzo e la pianta (anche il “frierend” dell’ultimo verso è un verbo che in tedesco si riferisce più alle persone che alle cose). Protezione e preoccupazione didattica sono le due forze da opporre alla violenza distruttiva; la progressione del v. 7 è dal generale all’individuale (il continente, l’isola estranea, poi il popolo a cui si appartiene, poi la famiglia e infine se stessi). Brecht è solo, impotente: la radicalità del pericolo è tale che ogni polemica risulterebbe settoriale. Quel che resta è l’esempio. Gli esempi sono per loro natura universalizzanti: questa poesia dedicata a un episodio biografico minimo (lavoretti di manutenzione in casa, in un giorno di festa) è in realtà pochissimo biografica: è la parabola di un vangelo laico da parte di un marxista allevato nel protestantesimo evangelico. E’ il gesto di Martino di Tours che dona il mantello al povero. I primi due versi, con quell’“heute” iniziale isolato e poi la ricorrenza sul calendario e l’indicazione meteorologica, danno l’idea di una pagina di diario, cui contribuisce la lingua assolutamente quotidiana; ma il diario può essere anche un breviario domestico, un libro d’ore su cui meditare.

In quello stesso 1938 Brecht scriveva, in A coloro che verranno”: “che tempi sono questi, quando/ parlare d’alberi è quasi un delitto/ perché su troppe stragi comporta silenzio!”. Proprio in quel periodo parla di un susino, di un ciliegio, di un albicocco; quegli alberi non sono il rifugio nella lirica, sono l’affermazione di una speranza che tiene testa alle stragi senza dimenticarle; l’alberello di albicocco ha la stessa importanza, nell’economia morale marxista, della minaccia politica.

Poesia come apparente evasione che allude in realtà a un impegno di secondo grado.

 

[Poesia. Spiegarla si può? (1). Brecht, Walter Siti – Continua qui]

2 Comments

2 Comments

  1. Antonio Marciano

    17 Gennaio 2017 at 21:34

    Non trovo giusto contrapporre la poesia alla prosa e dare tanta importanza alla metrica (per non parlare della rima)
    Anche la prosa talvolta è poesia: l’ingrediente essenziale è l’immediatezza di immagine
    Ascolti dentro di te il brano, chiudi gli occhi e davanti a te scorrono le immagini
    Vedi l’ermo colle, ma anche Cecilia che la madre porta in braccio tra i vicoli di Milano e la consegna al monatto…
    Vorrei precisare che la mia osservazione era rivolta alla definizione di Wikipedia: bravi nella ricerca dell’etimo ma spesso trascurano l’essenza

  2. silveria aroma

    18 Gennaio 2017 at 12:32

    Proprio ieri veniva ricordato che il 17 gennaio 1650 moriva Marianna de Leyva y Marino, più celebre come la Monaca di Monza…
    Manzoni ne descrive gli occhi:“Due occhi neri, neri anch’essi, si fissavano talora in viso alle persone, con un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio”.
    Nell’Opera manzoniana è difficile separare le due cose.

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