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Traversate e altri viaggi (7)

di Pasquale Scarpati formiaold4 [1]

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con dedica a Isidoro Scotti, dirigente medico c/o ASL di Latina
per la sesta parte (leggi qui [2])

Il treno sferragliava con frequenti sobbalzi forse perché le giunture dei binari non combaciavano perfettamente o forse perché le traversine erano di legno, oggi sostitute da quelle di cemento o altro materiale (non so).
In quegli anni ho vissuto, viaggiando, tali lavori e pertanto i treni portavano costantemente ritardo (non è che ora la situazione sia molto cambiata soprattutto a livello locale). Ne sa qualcosa chi è “pendolare” e/o chi deve attendere il “pendolare”!
Essi si classificavano in: locali detti familiarmente accelerati. Questi treni si fermavano in tutte, ma proprio tutte, le stazioni (sulla linea Napoli- Salerno vi era e vi è una stazioncina chiamata S. Maria La Bruna composta soltanto da una casetta che sembrava una di quelle fatte di lamiera che serve in un cantiere edile). Non solo: sulla stessa tratta, il treno fermava lungamente in una stazione posta ai piedi di una salita. Si aspettava, infatti, che in coda si agganciasse una motrice che spingesse il convoglio aiutando, così, quella di testa che lo trainava. Al termine della salita un’ulteriore lunga sosta perché la motrice di coda sarebbe dovuta essere sganciata.
A seguire i diretti cioè quelli che tralasciavano le stazioni più piccole; poi i direttissimi che corrispondono, grosso modo, ai moderni intercity ed infine i rapidi che collegavano le grandi città senza alcuna fermata intermedia. Gli orari non erano molto ravvicinati ma, presumibilmente, erano fatti in base all’ipotetico flusso dei viaggiatori ed i tempi di percorrenza delle tratte erano molto più lunghi degli attuali anche perché, mancando le porte automatiche, si scendeva e si saliva dalle carrozze più lentamente.
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L’apertura dei finestrini, lunghi e stretti, non riusciva a ventilare la carrozza. Da essi irrompeva il solito ed onnipresente scirocco, insieme all’ “odorino”, aspro, del ferro e dei ferodi dei freni, e del “bagno”. Ogni qualvolta si apriva la sua porta, infatti, “gradevoli ed acidosi effluvi” si spandevano per ogni dove, insieme al rumore “libero”, non attutito da nessun ostacolo, delle ruote che marcavano, con fare cadenzato, i punti di giuntura delle rotaie. Se, per avventura, si transitava da una carrozza ad un’altra si potevano scorgere, al di sotto, le lisce e lucenti rotaie mentre i respingenti si agitavano di qua e di là. Nell’incedere sembravamo ubriachi pur senza avere bevuto!
Per salire, poi, nella carrozza bisognava mettere i piedi in un certo modo perché i gradini non solo erano alti ma anche un po’ sbilenchi. Le persone anziane, pertanto, venivano letteralmente o spinte o tirate da chi era salito in precedenza oppure e l’uno e l’altro.
Se per caso si aveva la ventura di sedere sulla panca di legno sotto la quale era installato il diffusore del riscaldamento (!) nella migliore delle ipotesi i pantaloni divenivano caldi come quando appena stirati, per non dire di altro!
Per non parlare poi della linea che attraversava la Ciociaria, da me fruita, pre-adolescente e adolescente, qualche volta per il tratto che va da Caserta a Sparanise. Aveva un suo fascino: su un solo binario una vaporiera ansante si faceva inseguire da vagoni rutilanti. Di là partiva e parte tuttora un autobus di collegamento in sostituzione della tratta Formia –Sparanise utilizzata prima del secondo conflitto mondiale.

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Gli autobus

In quel tempo autobus di ditte locali piuttosto sgangherati collegavano città viciniori. Questi avevano la forma posteriore ricurva e al suo esterno vi era una scaletta che serviva per mettere eventuali bagagli sul portabagagli situato sul tetto dell’autobus, mentre in caso di pioggia o i bagagli veniva messi lungo la corsia oppure vi era un tendone che li copriva. Chi era un po’ più alto e accidentalmente si trovava nella parte posteriore del mezzo faceva a capate con il soffitto e quando scendeva rischiava di camminare sciancato o curvo come i vecchi (ma la gioventù non ha bisogno del fisioterapista, credo!).
Davanti, nei pressi del conducente, un grosso coperchio tondeggiante piuttosto lungo copriva il grande motore e pertanto era denominato cofano motore che, all’occorrenza, si poteva aprire se il motore andava in panne. Ma quello faceva anche da sedile soprattutto nel periodo invernale. Una volta capitò che l’autista fece scendere quegli abusivi dovendo aprire il cofano per collegare due fili per rimettere in moto il motore che all’improvviso, lungo una salita, si era spento.
Ovviamente non c’era aria condizionata e pertanto durante l’estate i finestrini erano tutti aperti. Il frastuono era enorme. Nella parte posteriore, vicino alla porta, vi era il posto per il bigliettaio che su un banchetto staccava i biglietti a seconda della distanza del viaggio.

Un pochino meglio erano gli autobus che collegavano le città o cittadine più grandi. Alcuni di loro avevano, tra l’altro, anche il portabagagli all’interno. Da Formia vi era l’autolinea Zeppieri che, tra l’altro, provenendo da Latina o da altre città, proseguiva per Napoli o Caserta.

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Formia ci accoglieva con un caldo soffocante, per me abituato alla brezza, o con un vento gelido se monte Altino aveva la brulla vetta incappucciata di neve. Qualche volta, nell’aria tersa, quelle montagne si stagliavano nel cielo oltre l’orizzonte e non era raro vedere, da casa mia, specialmente durante l’estate, guizzi di lampi sulle loro cime. Ma noi, nell’Isola, non avevamo di questi problemi. Vedendole da vicino, degradanti verso il mare, mi davano la sensazione di qualcosa di maestoso. Formia si adagiava, sinuosa, alle pendici degli Aurunci. Case quasi di altezza uniforme (non c’era il cosiddetto grattacielo), qualche villa immersa nel verde, la sua villa pensile, piazza Della Vittoria e la strada lungomare che sapeva di nuovo.
Le colline sapevano di fresco, non ancora sventrate da mille costruzioni. Le casette dell’ospedale “Dono Svizzero”, che insistevano su una lastra di cemento, chiudevano Formia ad oriente. Ultima propaggine il nuovo impianto del CONI. Poi solo aranceti ed un vecchio edificio che apparteneva ai Salesiani.

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La nave attraccava al molo Vespucci, quando il mare lambiva ancora la grande piazza dove su un lato (verso la strada) insisteva una tettoia maleodorante sotto cui vi erano le bancarelle dei pescivendoli e dove, tra l’altro, si svolgeva anche il mercato settimanale del giovedì. Questa volta ad attenderci a poppe ‘u vapore non vi erano né parenti né amici ma numerose carrozzelle trainati da cavalli defecanti (una stalla era situata a via Lavanga che è una strada centrale di Formia). Se ci accompagnavano le solite valige pesantissime, noi salivamo su una di esse e ci facevamo accompagnare alla stazione o per prendere il treno o l’autobus di lunga percorrenza che transitava anche durante le ore del giorno. Il basolato del porto,  facendo sobbalzare la carrozzella, allungava per un po’ la mia sofferenza. Le ruote facevano fracasso fino a che non si giungeva alla nuova strada asfaltata che portava alla stazione o a piazza Santa Teresa. Allora si sentiva più distintamente il ticchettio degli zoccoli del cavallo e la carrozzella sembrava acquistasse maggiore velocità pur essendo la strada in leggera salita. Scivolava via tra lo scrocchiare della frusta ed il roteare delle ruote. Un caffè al bar, per me il latte, e poi via.

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Le case di Scauri si allineavano lungo la strada e su tutte si stagliava la ciminiera della SIECI da cui usciva costantemente fumo nero. Qualcuno diceva che quella località era molto frequentata dai turisti durante l’estate soprattutto provenienti da Roma. Poi verso Simonelli o Marina di Minturno la campagna prendeva il sopravvento.

L’autobus, oltrepassato il Garigliano, continuava sull’antica Regina viarum e si inoltrava in mezzo alla campagna. Ci venivano incontro alcune case di piccoli borghi, ma tutt’intorno non vi era altro che la campagna ben coltivata con i suoi peschi ed i meli. Qua e là bufali al pascolo e laggiù il Roccamonfina che dispensa ancora acque termali. Il Massico si avvicinava e l’autobus senza sforzo affrontava la salita che porta a Cascano da cui poi si scende per inoltrasi, ancor più, nella piana di Terra di Lavoro. Nelle vicinanze di Caserta, specialmente se provenienti da Napoli, l’autobus ed i passeggeri erano avvolti da un lezzo tremendo. Qualcuno potrebbe pensare ad una terra dei fuochi ante litteram, ai rifiuti tossici. Nulla di tutto ciò, era semplicemente canapa messa a macerare.

A Formia si poteva incontrare, anche la “littorina” per Gaeta che inondava la stazione con spire di fumo nero ed “odoroso”.

Nell’Isola non esistevano collegamenti terrestri ordinari tra il Porto e le Forna. Un giorno i parancoli di Sigarette alzarono un pullman che a me sembrava mastodontico. Benedetto (Fricano) aveva avuto il coraggio di istituire una linea di collegamento tra le due località. Dico coraggio perché penso che i più non avrebbero perso l’abitudine di usare i soliti e vecchi mezzi di locomozione: il cavallo di S. Francesco (a piedi) e tra l’altro, come ho già scritto, scalzi per non consumare la “suola” (mettevano le scarpe poco prima di arrivare al porto), l’asino, o la barca che li portava a Cala d’Inferno dove, attraverso gli antichissimi scalini, raggiungevano la loro meta.

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Mezzi di locomozione privati erano tutti adibiti al trasporto merci: il cosiddetto triciclo di cui ho già parlato a proposito dei viaggi alla Forna e delle varie tappe, qualche camion (ricordo quello di Francesco detto ‘u lupe e quello di Nicola ‘a Checche), qualche bicicletta e ci voglio aggiungere anche qualche carrettelle ed una “Topolino” dalle portiere a vento di cui già ho già parlato che sembra appartenesse al dott. Martinelli.
Fatto sta che quegli autobus mi sembravano un po’ troppo ingombranti per la stretta e tortuosa strada.

Trovandomi una volta a Capri vidi che i collegamenti erano fatti da autobus di piccole dimensioni e pensavo che quelli fossero i più adatti per l’Isola. Comunque era già un progresso e lo strombazzare, nel silenzio, della sonora tromba del mezzo, specialmente nel rimbombo dei ruttoni, mi dava la sensazione di chissà quale gran “confusione”, cosa sempre gradita ai bimbi ed ai ragazzi.

Il balcone di casa dove abitavo era prospiciente il mare. Stava cioè proprio sul mare prima che fosse costruita la banchina nuova (ad una prossima puntata).

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Questo fatto mi diede la facoltà di vedere, tra l’altro, oltre alle navi, grandi e piccole, anche il batiscafo Trieste  di Piccard trainato da un rimorchiatore quando venne ad immergersi nelle acque di Palmarola ed i palombari che con scafandri e tute lavoravano sul fondo, alimentati per la respirazione da un tubo a cui era collegata una manovella.

Ma quello che mi affascinava era un evento piuttosto eccezionale. All’improvviso un puntino compariva nel cielo al di sopra di Cala d’Inferno o dello Spaccapurpo, si avvicinava velocemente per poi planare sull’acqua con ampi spruzzi nella Baia. Un idrovolante faceva il suo ingresso trionfale nella Baia vuota; si fermava con le ali tese come aquila che sorvola le giogaie dei monti. Sicuramente era giunto per qualche emergenza sanitaria (in quel tempo quello era il mezzo di trasporto più veloce e quella era la… “pista di atterraggio” per tali eventi!). In seguito scomparve, sostituito da elicotteri che al posto del carrello avevano le gomme. Questi si posavano sul piazzale di Giancos alzando un gran polverone; poi il loro punto di atterraggio fu la banchina nuova. Era talmente una novità che, chi ne aveva facoltà, la “immortalava” in una foto.

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Il più delle volte, però, ci si curava con metodi empirici: decotti, cataplasmi, erba corallina, olio di ricino, sale inglese, latte d’asina e soprattutto preghiere.

Un viaggio nel tempo mi ha riportato ai tempi dei viaggi.

Ricordi questi viaggi e le “peripezie” sanitarie?
Ciao Pasquale

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