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Traversate e altri viaggi (3)

di Pasquale Scarpati

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Con dedica a Isidoro Scotti, dirigente medico c/o ASL di Latina
per la seconda parte (leggi qui [2])

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Attraccate a’ pont ‘u muole, sott’u Lanternino, nei pressi del bar del Pittore, solitarie e a luci spente, sembravano navi gigantesche. Barchette, invece, se confrontate a quelle di oggi di cui giustamente ci si lamenta per altre ragioni.
Una volta, tanti anni fa, scorsi il Mergellina attraccata a fianco del Quirino. Piccolina nei suoi confronti; rabbrividii pensando a quanti viaggi avevo fatto in sua compagnia anche se veniva messa sulla linea commerciale solo durante l’estate allorché il Ponza era “dirottato” sulla linea turistica di Anzio; per cui più di rado si poteva incappare nei fortunali.
Forse non me ne accorgevo perché interessato a tutt’altre cose nel caldo sole di mezzogiorno o nella frescura della brezza marina che, all’imbrunire, provenendo dai Guarini scivolava sul mare riuscendo, qualche volta, col suo soffio fresco e costante, a far tirar fuori dai cassetti qualche maglia leggera per coprire le spalle e le braccia.
Così la sera volentieri si andava a fare la rituale passeggiata a’ pont’ u muole ascoltando il respiro del mare e osservando, nella semioscurità, piccole onde che si dileguavano nel buio.

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Le zaccalene con le reti ben riposte e le barchette si alzavano e si abbassavano, si dondolavano di qua e là, toccandosi le une con le altre come se volessero partecipare tutt’insieme ad una festa comune. Ognuna si agitava secondo il suo stile: più veloce e meno veloce, di poppa e di prua. Solo il papà Vincenzino, che aveva brontolato durante tutto il giorno, probabilmente molto stanco, si alzava ed abbassava lentamente. Scuro e sporco faceva, a volte, da contraltare alla piccola edicola dai contorni chiari dove è riposta l’icona della Madonna della Grazie. La guardavo un po’ con astio perché mamma diceva che prima della sua festa non mi potevo immergere nella calme e limpide acque d’u summarielle: senza la sua protezione, diceva, si rischiava di affogare.

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Ai piedi della piccola rampa che porta al Lanternino, staccandomi dai miei, salivo sul piazzale e, salendo sul muretto posto tra due “merli”, affacciandomi, allungavo l’occhio verso la buia spiaggia sottostante. Ma non potevo esimermi dal ficcarlo, come cuneo, fin dove si aveva la percezione visiva delle cose. Gavi e Le Forna, biancastre, laggiù ma ecco la Ravia scura con la sua casa diroccata, e poi ‘u cascavalle che sembrava un palo in mezzo al mare.
Buchi neri nelle vicinanze. Santa Maria (il “presepe lo figuravo) con le sue quattro luci sparse qua e là e la chiesetta al centro, dedicata a S. Giuseppe, quasi capanna della Sacra Famiglia. Casette multicolori che si addossavano a costoni di collina dai bordi frastagliati. Mi parevano sugheri di quelli che fanno da struttura portante di un presepe. Il bordo risaliva brevemente per poi ridiscendere e risalire nuovamente. Vegetazione sparsa inframmezzata da chiazze marroni che scendevano fino al mare. Nei buchi neri venivano insediati il salumaio, il macellaio, il fornaio. I re Magi scendevano sulle loro cavalcature dal versante occidentale mentre sull’altro versante re Erode attorniato da guardie armate dominava con lo sguardo severo tutto il paesaggio.
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In basso spiaggia ciottolosa e motovelieri scuri tirati a secco chiudevano il singolare paesaggio mentre alle spalle si ergeva la collina di Frontone che, anche se distaccata, sembrava formare un tutt’uno. Due ante scorrevoli si aprivano affinché lo sguardo si immergesse nel piccolo scrigno. Una di esse, il nero Turone che la chiude a occidente con la vegetazione sparsa qua e là, tiene, seminascosta, la piccola Marinella dei morti  dove mi dirigevo a nuoto o con la barca, rigorosamente a remi, “sequestrata” a Franco (il fruttivendolo) che aveva il negozio vicino casa mia, perché rotta inusuale per barche e persone. Curioso di osservare eventuali “segreti” della piccola spiaggia, i suoi fondali e le numerose chiane colà quasi affioranti.
Al di sopra di quest’anta non si scorgeva altro che il buio assoluto. Ai Conti e alle Forna, infatti, mancava o quasi l’energia elettrica. Ai Conti veniva erogata solo per poche ore, mentre alle Forna era del tutto assente. Oggi non posso non pensare come in pochi km. quadrati vi fosse tale grande dicotomia (differenza).

Da una parte il Porto che intravedeva già il futuro economico dell’Isola. Quante volte, infatti, il sonno ristoratore veniva interrotto da un vocio chiassoso o gazzarra (oggi diremmo “casino”) di gruppi di giovani e dallo scalpiccio assordante degli zoccoli, calzati perché di moda, battenti o struscianti sul basolato o sul lastricato della strada.
Lo sapeva bene chi abitava lungo il Corso costretto com’era a subire quest’angheria e, pertanto, borbottava anche perché la sua giornata iniziava quando finiva quella degli zoccoli caciaroni: la mattina, molto presto.
Così noi – zio Peppe, zio Pasquale e cumpa’ Tatonno ‘u ianchiere e altri che non cito – il giorno dopo teneveme ‘nu gruosse male ‘i  cape. Io, chiaramente in cuor mio, avrei voluto stare dall’altra parte pensando che “i vecchi” erano soltanto musoni e brontoloni, a cui non va mai nulla di buono. Quell’ innocente  male ‘i cape oggi, probabilmente, non esiste più. I più sono avvezzi ai rumori. Alla fine della stagione, infatti, essi sciamano, come le api, verso località notoriamente ed assiduamente rumorose. Quei pochi che restano, sicuramente, hanno altri antidoti.
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Dall’altra parte, invece, a pochi metri di distanza, appena dopo Santa Maria, le giornate erano scandite come ai tempi degli antichi. Lì, infatti, la notte prendeva drasticamente il sopravvento sul giorno, “arraffava” a piene mani tutta la natura, la sottraeva allo sguardo dell’uomo e la custodiva gelosamente, lasciando che gli animali e gli uomini riposassero in pace nei loro nidi. Lì, sul fare della sera, una luce fioca, gialla, tremolante ma calda, faceva capolino dalle finestre non rischiarando quasi nulla.
Il lume e/o la candela erano i signori dell’imbrunire mai della notte; per questo si era quasi obbligati ad andare a dormire “con le galline”. Il pianto di un bambino o lo stridio di una macina, anche nel cuore della notte, non dava fastidio a nessuno. Quando la luna non impallidiva la notte, il contadino e il pescatore, pur nelle tenebre più assolute, non disdegnavano percorrere gli antichi scoscesi e sdrucciolevoli sentieri che conoscevano a memoria fin dall’infanzia.
Le donne non potevano avere la facoltà di accudire alle faccende domestiche o ad altri lavori con l’ausilio delle “macchine” e pertanto erano costrette ad affidarsi soltanto alla possanza delle loro braccia. Abitare colà, pertanto, voleva dire tuffarsi ancor più nel passato con i suoi ritmi, i suoi pensieri, le sue abitudini (chi, tra quelli che vissero quei momenti, lo ricorda?). L’andirivieni del “formicaio” ed il conseguente stress, caro Isidoro, che spesso sono causa della mal sopportazione anche delle piccole cose (che a volte, invece, possono essere anche piacevoli, come, ad esempio il suono familiare di una campana) erano del tutto sconosciuti.

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Ecco il lungo scoglio di Frisio che s’incunea nel mare: punta che spezza, all’improvviso, una costa che sarebbe potuta già apparire monotona. Giancos con i tre lampioni dalla fioca luce attaccati ai muri della case. Ecco un altro promontorio alla cui estremità ‘u scogli ‘i fore faceva da trampolino per tuffi di qualsiasi genere.
Gennarino a mare apriva lo “sfavillio” (se comparato alle zone precedenti) di Sant’Antonio da dove giungeva, portato dal vento, una melodia di un disco del jukebox del bar di Veruccio ‘u chiattone. Quanto costava ascoltare una canzone! 50 lire per una e 100 lire per tre canzoni! Le fioche luci, giallognole, si incuneavano verso ‘u summarielle dissolvendosi nell’oscurità marina. Il nero ruttone di Sant’Antonio interrompeva momentaneamente quello “sfavillio” che ritornava non appena il Corso si affacciava sul porto.
La banchina, che sapeva di nuovo, era deserta e pertanto il buio si effondeva di nuovo dappertutto. Sul Corso, a volte, un po’ di animazione e gente affacciata al muro dalle grosse pietre. Case arroccate là in alto ed il ristorante EEA dove qualche volta mi ero recato, accompagnato dai miei, vestito a festa per partecipare a lieti eventi che Biasiell’ o Bafarone immortalava in foto bianco e nero in cui tutta la famiglia sorridente era riunita.
La cupola della chiesa che a me sembrava imponente figurava ‘u parricchiane che cercavo sempre di “scansare” perché anch’esso figura imponente dalla voce stentorea.
Non amavo, infatti, ‘u parricchiane perché mi sembrava, nonostante tutti i suoi sforzi, autoritario e limitatore della mia libertà.

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Sera chiara in cui sembrava che il firmamento volesse da una parte conchiudere tutti gli spazi per poi tuffarsi per assaporare la marina frescura come quelle immagini poste sotto una piccola cupola di vetro che, capovolgendosi, si lasciano imbiancare da una parvenza di neve. Le stelle, luminosissime e tremolanti facevano l’occhiolino e non era raro osservare la falce di luna che si accompagnava ad una di esse molto luminosa. Questa, come diamante che pende da un orecchino, si poggiava sulla punta inferiore della “falce” o seguiva l’astro come “solitario” splendente incastonato su un anello scuro e dalla forma particolare. Ma un gozzo dispettoso e rumoroso rompeva la quiete semioscura; anzi, andando via, si adirava sempre più, fino a che non spariva nelle tenebre, dileguando se stesso ed il suo frastuono oltre la Ravia oppure oltre la cima dove riposano quelli che ci hanno preceduto lasciandoci mille esperienze e riposavano anche quelli, sepolti al di fuori dalla cinta muraria, caduti sulle spiagge anziate per farci respirare la libertà perduta.

Allora la quiete prendeva il sopravvento quasi a voler ribadire che quello era il suo regno e tutto tornava com’era prima.
I miei raramente mi accompagnavano lassù e pertanto non trascorreva molto tempo che la voce di mio padre mi riportasse alla quotidianità. Tornavamo a casa, piano piano, passo dopo passo,”rinfrescati” fino al midollo osseo.
Il percorso non prevedeva la Piazza ed il Corso ma, di solito, ci si incamminava per la banchina: forse per assaporare fino all’ultimo quella frescura o più probabilmente perché i miei avevano più facoltà di parlare tra loro senza essere interrotti.
E’ bello, infatti, passeggiare e parlarsi senza essere disturbati da niente e da nessuno. Si crea una certa intimità che oggi manca, purtroppo, a causa dei numerosissimi e variegati mezzi di comunicazione che non solo sono “freddi” ma spesso interrompono o disturbano ciò di cui si sta parlando. Specialmente quando si è seduti intorno al tavolo per pranzare o cenare (come ho già scritto). Per cui qualcuno giustamente ha detto che, per poter parlare diffusamente di un argomento con chi siede accanto o di fronte, non vi è nulla di più semplice che fargli una… telefonata! Se non altro ha la precedenza su tutto e su tutti!

Soddisfatti ci attendeva il letto con le lenzuola leggere, il sonno ristoratore fino a che la brezza del mattino che si allungava insieme al sole nascente o, per meglio dire, la voce di mio padre non mi faceva stropicciare gli occhi.

Il più delle volte, però, l’incoscienza giovanile bandiva dalla mente queste idee “peregrine” per affrontare piuttosto, ed anche con entusiasmo, situazioni molto pericolose.

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[ Traversate e altri viaggi. (3) – continua ]