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La necessità di avere una classe dirigente ambientalista

di Vincenzo Ambrosino
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Se pensiamo a tutta l’opera di colonizzazione dell’isola, che è avvenuta con il totale disboscamento del territorio per trasformarlo ad uso agricolo, capiamo che quest’isola in quanto ambiente naturale è stata sfruttata e da sempre soggiogata dall’uomo per la sua sopravvivenza.
Quel sacrificio ambientale è stato però necessario infatti per circa 200 anni la popolazione residente è vissuta ed è cresciuta.

I coloni però capivano che bisognava lottare contro il dissesto idrogeologico per cui  le “parracine” di contenimento “delle catene” dovevano essere mantenute sempre intatte, per tenere saldo il terreno e drenare l’acqua; le vie di scolo dell’acqua dovevano essere sempre pulite, per far defluire ordinata l’acqua piovana.

Oltre all’agricoltura, l’uomo viveva di caccia e di pesca, molti erano artigiani e creavano utensili, si scavavano grotte e si costruivano case, tutto si riciclava.
Se in un primo momento l’uomo disboscando aveva dissestato l’equilibrio primario dell’ambiente  in seguito con le sue opere idrauliche e le sue attività economiche si era integrato e aveva stabilizzato un nuovo  equilibrio ecologico.

Per tanti anni, i ponzesi sono vissuti sull’isola raccogliendo i prodotti della terra e del mare; proteggendo le loro proprietà, indirettamente proteggevano l’ambiente naturale: una somma di proprietà terriere coltivate e curate costituivano l’intero territorio per cui i ponzesi inconsapevolmente proteggevano l’ecosistema isola.
Ma dagli anni ’30 fino agli sessanta c’è stato qualcosa che ha rotto questo equilibrio tra le famiglie ponzesi, le loro proprietà e l’ambiente naturale.

Su Ponza è nata una miniera poi diventata cava che ha scavato, deturpato, inquinato, dissestato, aggredito case, strade, fatto emigrare intere famiglie dall’isola.
Per la prima volta un proprietario esterno, con mezzi economici e politici straordinari veniva ad impossessarsi di una parte della nostra isola; utilizzando un potere di persuasione per i ponzesi (il lavoro) e con mezzi meccanici (le ruspe) veniva a rompere quegli equilibri ecologici e sociali che erano venuti precedentemente a fondersi tra la popolazione residente e l’ambiente isola.

L’esperienza della miniera è stata oltre per l’ambiente naturale, per molti fornesi, traumatica: sono stati cacciati dalle loro case, dalle loro terre e per un ponzese essere cacciato dalla propria terra è come essere espropriato della propria anima.
Cosa succedeva nella mente delle famiglie fornesi che vedevano i loro terreni comprati dalla Samip, le loro case distrutte, quell’ambiente che veniva stravolto, il verde dei terreni coltivati diventava bianco, grigio, polveroso a seguito della deturpazione delle ruspe?
A ripensarci a distanza di 50 anni dalla chiusura della Samip, quella attività estrattiva la possiamo definire una “diseconomia” perché era un’attività non compatibile con l’ ambiente naturale e con la fragilità dell’ecosistema di un’isola.

Nel 1975 i cittadini di Ponza riescono a ribellarsi allo strapotere del Sindaco Padrone dell’isola. Nasce la speranza per Ponza e per i Ponzesi di trovare una nuova strada sociale ed economica ed è la politica a guidarla.
Nel 1978 viene chiusa la miniera Samip. .
Nel 1982 si redige il Piano Regolatore Generale che pianifica uno sviluppo economico e sociale a misura di ambiente isola.

In questi anni c’è una regia politica, che vede la Regione Lazio protagonista, per dare soluzioni ai tanti problemi strutturali da sempre dimenticati.

La Regione Lazio è promotrice di ben due leggi Regionali per le isole ponziane: si finanziano tutta una serie di opere pubbliche strutturali che hanno l’obiettivo politico primario di sostenere la residenza invernale e aiutare uno sviluppo turistico equilibrato.
Si costruiscono le scuole, il poliambulatorio, la rete idrica e fognaria, i depuratori, si progetta la condotta sottomarina per rifornire l’isola di acqua; si finanziano i collegamenti marittimi affinché possano servire i residenti invernali e gli isolani possano sentirsi cittadini d’Italia.

Ecco, questa dei finanziamenti pubblici ai trasporti marittimi è una cosa importante da capire: si danno i finanziamenti pubblici per sostenere le corse dei traghetti e aliscafi per le isole che hanno uno scopo sociale, i profitti, gli imprenditori privati e pubblici li fanno autonomamente, servendo i naturali flussi turistici d’estate.
Tutto va avanti, progressivamente l’isola migliora almeno fino al 1993 per quanto riguarda l’incremento delle strutture pubbliche.

Dopo questa data si perdono i contatti con la Regione Lazio, per cui l’isola non segue più una linea politica programmatica e finanziaria e si va avanti senza continuità.
I finanziamenti della rete idrica e fognaria rallentano e infatti ancora oggi non abbiamo le fogne funzionanti almeno per Le Forna. Non c’è in questa zona un depuratore funzionante.
Ma la crisi della nostra isola avviene proprio perché mentre, da una parte, la Regione Lazio finanziava e produce idee per risolvere i problemi strutturali, dall’altra, la politica locale non è stata in grado di affrontare la nuova sfida: prospettare uno sviluppo economico e sociale compatibile con le risorse ambientali.
Per esempio non siamo riusciti in tutti questi anni a risanare la ferita inflitta dalla Samip nella zona che va da Cala dell’Acqua a Cala Cecata.
E questo di risanare la ferita inflitta dalla miniera Samip era dal primo momento già stato inserito nel Piano Regolatore Generale del 1982. Quella zona era stata da una parte stralciata dal Piano Regolatore Generale ma i Redattori del Piano fissavano le linee guida che la politica locale doveva seguire per arrivare a ripagare il torto subito dall’ambiente e dai fornesi e creare le premesse per una nuova fase di sviluppo economico per Le Forna.

La politica locale non è stata in grado di far crescere una cultura isolana ambientalista, capace di governare la ricchezza turistica e farla diventare un’opportunità per stabilizzare una comunità di residenti per tutto l’anno.
E infatti dopo il 1975 il turismo diventa di massa! I contadini diminuiscono e aumentano gli operatori turistici: con la cultura contadina ci improvvisiamo a servire i turisti.
La campagna viene abbandonata e progressivamente i presidi idraulici di contenimento, le “parracine “,  vengono distrutti. I canali di scolo dell’acqua non vengono puliti. La vegetazione segue la sua successione ecologica e in modo disordinato riconquista spazi agricoli. In anni diversi si verificano vari incendi, alcuni devastanti, che accelerano il dissesto idrogeologico.

Sottolineo che la politica locale è colpevole perché non è riuscita, nel passare da un economia primaria a quella turistica a trovare soluzioni per dare un nuovo equilibrio tra esigenze economiche e esigenze di protezione ambientale e sociale.
Ci siamo trasformati da individualisti risparmiatori, protettori del mondo antico legato alla proprietà terriera in servitori di un consumismo turistico che non può aver futuro perché si adatta a sfruttare un turismo intensivo concentrato in 40 giorni d’estate.

Non abbiamo una nostra, studiata, organizzata, offerta turistica, la nostra offerta segue la domanda per cui non è compatibile con le nostre risorse naturali che si stanno deturpando e distruggendo.
Non abbiamo mai avuto un progetto politico per proteggere ambiente e residenza; al contrario, le soluzioni politiche organizzative e strutturali che vengono proposte sono finalizzate a creare il villaggio turistico.
Per cui sono saltati nel tempo tutti i baluardi a difesa della continuità sociale, culturale, economica e ambientali dei residenti con la loro isola.
Vincono i “malloppisti” da una parte e assistiamo all’abbandono dell’isola dall’altra.

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Il re Borbone aveva un progetto di colonizzazione per stabilizzare una residenza sull’isola, nella loro semplicità i ponzesi nell’isola fattoria avevano un progetto per vivere sull’isola, al contrario i ponzesi dopo gli anni novanta non hanno più un progetto di vita sociale ed economico.

Ecco la crisi attuale che solo una classe dirigente ambientalista e isolana può provare a risolvere.