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Dall’isola: 2 novembre

di Francesco De Luca
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In questo porto è quiete. Protetto dai muri della pietà le zolle fioriscono di colori innaturali, di fiammelle finanche. Come fatui sprazzi di vita, di palpito.

Dalle lapidi sorridono i volti in una smorfia finta, e le acconciature delle donne dicono di un tempo passato, e i bimbi nelle foto mostrano immobili posture innaturali.

Suona una campana, grave; suona a lutto.

Cimitero, porto della nostra pace.

Fra i loculi passano coloro che oggi calpestano il suolo dell’isola. Affranti perché il peso dell’affetto reciso soffoca.

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Il colle della Madonna è gravido di dolore, quasi si accascia sotto i ricordi che zampillano e presto scemano. “Quell’uomo fu falciato nella sua giovane età; quella donna si chiuse alla vita nel lasciare al mondo la sua creatura; e dalle foto d’epoca si esalta la famiglia; e dai volti scapigliati si ride alla vita”.

Nelle cappelle, sulle seggiole donne in nero invitano i passanti a mirare: “Guarda come era bello Franchino mio”. Il piglio della maestra, la smorfia della vecchia fotografata all’insaputa.

Domani questo porto vedrà anche noi come carcasse ormeggiate, in disarmo.

Lì in faccia al mare che tormenta i faraglioni rivedo mio padre. Serio e pensieroso. Come tutti i padri, come tutti gli anziani. E mia madre a fianco, sorridente.

Voglio chiudermi al dolore, lasciarmi alle folate del levante, per non soccombere alla morte. Piango, e mi libero dall’angoscia.

Vivo perché il ricordo viva.

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