Ambiente e Natura

I terrazzamenti, ovvero “i parracine”

segnalato dalla Redazione
terrazzamenti-a-pantelleria

 

Dopo aver riportato la notizia del terzo convegno mondiale sui paesaggi terrazzati (www.terracedlandscapes2016.it) che si terrà in Italia tra il 6 ed il 15 ottobre 2016 e che prevede una tappa ad Ischia dal 10 al 12 (leggi qui), riprendiamo integralmente il dossier dedicato all’argomento, di Francesco Erbani da “La Repubblica” di ieri, domenica 9 ottobre, per lo stretto interesse che riveste anche per la nostra isola.

Paesaggi da sogno e argini alle frane il tesoro nascosto delle terrazze d’Italia
Dal Trentino alla Sicilia, sono 170mila gli ettari di collina censiti. Ma uno su tre è minacciato dall’incuria: corsa per salvarli
La lunghezza dei muri è di 170mila chilometri, venti volte più della Muraglia cinese Boom dei comitati per fermare il degrado A Vicenza manutenzione affidata ai richiedenti asilo

di Francesco Erbani

Sul versante montano del Canale di Brenta, nel Vicentino, sono una decina i richiedenti asilo che lavorano per fare manutenzione o ripristinare l’imponente serie di terrazzamenti che salgono su fino a 500 metri d’altezza. Vengono da Nigeria, Mali, Togo, Ghana, li ha coinvolti il comitato “Adotta un terrazzamento”, che da tempo si prende cura di un patrimonio costruito a partire dal Seicento. Troppa era la pendenza per coltivare il tabacco, per trattenere l’acqua e dunque, usando pietra a secco e niente calce, si sono realizzati nei secoli terrazzi che chiamano masiere e che svettano per sette, otto metri.

Dalla seconda metà del Novecento è iniziato l’abbandono, le colture sono sparite, il bosco ha preso il sopravvento, il paesaggio si è banalizzato, è venuta meno una preziosa fonte di reddito e anche la vita comunitaria che lì prosperava si è spenta. Dei 230 chilometri di pietra a secco, ne è sopravvissuto sì e no il 40 per cento.
Finché, promosso dal comune di Valstagna, dal gruppo Terre alte del Club alpino italiano e dal dipartimento di Geografia dell’università di Padova, non è arrivato il comitato “Adotta un terrazzamento”.

Quella vicentina è una delle buone pratiche raccontate dal 6 al 15 ottobre a un convegno internazionale che si svolge fra Venezia, Padova e in dieci luoghi segnati dai terrazzamenti: dalla costiera amalfitana alle Cinque Terre, dal Trentino a Pantelleria, dalla Valpolicella all’alto Canavese, da Trieste alla Val d’Ossola. Partecipano circa 250 relatori provenienti da 20 diversi Paesi. È l’occasione per misurare lo stato di salute di questi paesaggi in Italia.

È una salute precaria fotografata dalla prima mappatura mai realizzata (il progetto si chiama Mapter, ed è curato dall’università di Padova). In totale sono 170mila gli ettari censiti attrezzati a terrazzi, un’estensione pari a quella del Veneto. E sono 170mila i chilometri di muri a secco che li reggono, pari a circa venti volte la muraglia cinese.

«È una misura per difetto, realizzata con un sistema, il Corine Land Cover, al quale sfuggono le piccole dimensioni», spiega Mauro Varotto, geografo dell’università di Padova e fra i coordinatori della decina di università coinvolte nella mappatura, autore insieme a Luca Bonardi di Paesaggi terrazzati d’Italia, uno studio in uscita in questi giorni (Franco Angeli editore).
«L’estensione è ben maggiore, ma difficilmente individuabile perché buona parte di questo patrimonio è abbandonato », aggiunge Varotto.

Ed è questa la preoccupazione: si sta perdendo un paesaggio attrezzato nei secoli e deperisce un presidio contro i dissesti e le frane. Com’è dimostrato dalla tragica esperienza delle Cinque Terre. Fra le minacce viene indicata anche la meccanizzazione dell’agricoltura. Muretti e terrazzi sono di ostacolo ai trattori che hanno bisogno di salire e scendere lungo i pendii, rendendo prevalente il sistema del “rittochino” che spesso agevola il dilavamento.

Oltre il 30 per cento dei terrazzamenti censiti è diventato preda del bosco, di vegetazione spontanea, e dunque è sottratto alle coltivazioni. Il 6 per cento si è perduto a causa dell’urbanizzazione. Un altro 30, invece, è utilizzato a seminativo, il 19 a uliveto, il 3 a vigneto, un altro 3 a frutteto, limoneto o castagneto.

La regione più terrazzata in proporzione alla superficie complessiva è la Liguria, con il 7,8 per cento del suo territorio così attrezzato (oltre 42mila ettari). Seguono la Sicilia, con il 2,4% (63 mila ettari), e la Toscana con lo 0,99% (22 mila ettari). La Campania vanta 11mila ettari a terrazzi, il Lazio 5 mila.
I primi quattro Comuni sono tutti siciliani: Pantelleria, Modica, Ragusa, Lipari. Al quinto posto c’è Genova.

Laddove fioriscono, i terrazzamenti sono rigogliosi di vigneti, come in Trentino, di limoneti, come in costiera amalfitana, o di ulivi e capperi, come a Pantelleria. «Svolgono una funzione sociale fondamentale, perché conservano un bene prezioso e irrinunciabile, la fertilità dei suoli», dice da Trieste Livio Poldini, professore emerito di Botanica.
«I terrazzamenti sono l’esito di una conquista di terreni all’agricoltura che ha dell’eroico», insiste Varotto. «È un processo che viaggia in parallelo con l’incremento demografico avvenuto fra la metà del Settecento e la fine dell’Ottocento». Le pietre conservano il calore quando fa freddo e il fresco quando fa caldo. E negli interstizi, che assomigliano a corridoi ecologici, ospitano una varietà infinita di flora e di fauna.

Esistono norme, anche europee, che preservano i paesaggi rurali storici. Ma il conflitto fra chi vuole tutelarli e chi predilige un’agricoltura meccanizzata permane. In Trentino, per esempio, o in Veneto. Dove però spicca l’esperienza del Canale di Brenta, con i militanti di “Adotta un terrazzamento”, i quali riescono a convincere i proprietari a concedere loro di liberare da rovi e sterpaglie i preziosi terrazzi abbandonati.

Le immagini
In alto, un terrazzamento nell’Isola di Pantelleria.
Sotto, una coltivazione nelle Cinque Terre (Liguria) e una distesa verso il mare in Toscana

[Da “La Repubblica” di domenica 9 ottobre 2016; pag. 19]

vendemmia-alle-cinque-terre-liguria

una-distesa-verso-il-mare-in-toscana

File .pdf dell’articolo: repubblica-del-9-ott-2016-terrazze-ditalia

2 Comments

2 Comments

  1. Sandro Russo

    27 Novembre 2019 at 06:46

    Dalla manutenzione delle parracine alla manutenzione del Paese. Ovvero: recuperiamo il buon senso degli antichi e applichiamolo al presente. Segnalo uno scritto di Michele Serra dalla sua Amaca di ieri, 26 nov. 2019 su la Repubblica.

    Come funziona l’Italia
    di Michele Serra

    Quanto costa un uomo con la zappa e gli stivali di gomma?
    Costa il tempo necessario a insegnargli che la zappa, che tiene pervio il fosso, pulita la canalina, sgombero il tubo di cemento, fa miracoli.
    Credetemi, non è del passato contadino, non dell’improbabile arcadia di nonni sapienti che sto parlando. È del futuro.
    Il governo delle acque, in un Paese per il settanta per cento montagnoso, è un insieme di grandi e piccole opere.
    Le dighe enormi e gli argini possenti, le tonnellate di cemento e i viadotti che scavalcano i fiumi contano quanto il cesello paziente del territorio. Senza la cura del metro quadro, del rivo, del drenaggio che spurga la frana, nessuna grande opera basta a contenere la dissoluzione di un territorio dimenticato, tradito, omesso.
    Ve la racconto io, e mi dovete ascoltare, la differenza tra l’acqua che viene giù disciplinata, lungo il reticolo anche minuto che solo l’uomo con la zappa e l’uomo con la ruspa (piccola, maneggevole) possono mantenere vivo; e l’acqua ingovernata, anarchica, lasciata alla sua cieca foga, che poco a poco svelle e trascina, cancella e distrugge. Grandi opere, ma certo, però per farne capire l’utilità e l’intelligenza, delle grandi opere, fatele parte di un sistema che riguarda tutti, proprio tutti. Date una zappa in mano a ogni studente, portatelo a vedere come funziona il monte, come funziona l’Italia. Se è una mania, pazienza, vale la pena passare per maniaco: servizio civile obbligatorio, di leva, per tutti, badile zappa piccone e stivaloni per ogni abitante di questo Paese, capi che insegnano, un esercito di soldati che impara. Cambierebbe l’Italia, cambierebbe dalle sue radici.

  2. Dante Taddia

    29 Novembre 2019 at 17:07

    Era da un po’ che volevo far sentire la mia voce di tecnico per un problema che in questo periodo si sta facendo decisamente drammatico e ringrazio Sandro, frate ‘i purpe, che mi offre lo spunto della manutenzione  e costruzione delle parracine e allagando (non è un refuso ma voce del verbo allagare) il discorso dalle conseguenze della pioggia, tanto per restare in tema  umido.  Ho sempre sostenuto  che “Ponza è un’Italia in sedicesimo” e una volta che risolveremo i problemi di  Ponza avremo il risultato positivo per risolvere quelli dell’Italia… e viceversa.
    Mi riferisco proprio all’uomo con la zappa che il buon Michele Serra,  ridacchiando compiaciuto, sostiene essere  due “entità ” che unite possono fare moltissimo per preservare il nostro ambiente. Dopo i megagalattici  progetti delle varie dighe dai nomi altisonanti, che non faccio per evitare  sgradevoli commenti dei colleghi tecnici che hanno partecipato alla progettazione ed esecuzione, quelle delle iperstrade a otto corsie, dei viadotti che sfidano il cielo, (e che restano poi senza la minima manutenzione)  ecco che si affaccia nel corso di importanti meeting con i vari finanziatori mondiali la timida proposta, direi forse  troppo semplicistica ma  realizzabilissima ed economicissima, della figura del “cantoniere”.
    Sì avete letto bene, il “cantoniere”, l’uomo con la zappa che per decenni ha curato  la manutenzione “giornaliera” della nostra rete stradale “tenendo pervio il fosso, pulita la canalina, sgombero il tubo di cemento” evitando smottamenti, allagamenti, pianti e stridor di denti, tanto per andare in rima e commentare le sciagure ormai giornaliere che, con parola altisonante e di recente conio, si attibuiscono al “dissesto idro-geologico”(sarebbe meglio definirlo “dissesto mentale-logico”).
    È proprio durante quei meeting in cui si parla del futuro, vedono un onnipresente uomo-con-la-zappa troneggiare sullo sfondo dell’alba radiosa di un prospero avvenire. E questo futuro è la scoperta “dell’acqua calda”, non perché causata da un innalzamento anomalo della temperatura del globo che sta sciogliendo i ghiacciai e sommergendo centinaia di isolette sparse nei vari mari, ma di acqua calda come è intesa nel proverbio.
    E “l’acqua calda” che si è scoperta  prevede che nei grandi cantieri dove ci sono dozers, escavatori e simili possenti macchine a smuovere terra e roccia, sia obbligatoria la presenza di un uomo con la zappa che, incaricato di lavorare su un solo kilometro di strada, la mantenga giornalmente in perfette condizioni di drenaggio al costo di qualche  dollaro; un’inezia al confronto delle centinaia di migliaia spesi per realizzare la faraonica opera cui basta una pioggia battente d’una nottata per vederla liquefarsi trascinando via tutto il manufatto di cui il “bipede umano” ha pensato nella sua grande stoltezza di corredarla. 
    Eccolo il futuro di ieri che arriva per un domani migliore. “Date una zappa in mano a ogni studente, portatelo a vedere come funziona il monte, come funziona l’Italia” dice sempre il buon Serra; permettetemi una parafrasi, diamo ‘sta famosa zappa non sui piedi ma in mano a chi di qualunque colorazione politica vesta la sua giubba parla e straparla su Ponza, solo in teoria ma cercando di fare anche qualcosa di pratico, non lo nego e gliene do atto, ma che spesso resta solo un esercizio di carattere epistolare.
    “Se è una mania, dice sempre Serra, pazienza. Vale la pena passare per maniaco: servizio civile obbligatorio, di leva, per tutti, badile, zappa, piccone e stivaloni per ogni abitante di questo Paese: capi che insegnano (facendo, aggiungo io, dato che s’impara molto di più con l’esempio) e un esercito di soldati che impara. Cambierebbe l’Italia, cambierebbe dalle sue radici” e l’isola Ponza, un sedicesimo dell’Italia, ne avrebbe giovamento, aggiungo sempre io.
    Mi voglio riferire poi alle parracine con un’esperienza diretta, desunta da un mio lavoro fatto ad Haiti. Le parracine sono fatte localmente con le conchiglie  delle “tofe” come sono chiamate a Ponza, gasteropodi simili al Buccinus communis o allo Strombus bubonius che costituisce con una saporitissima salsa piccante uno dei piatti nazionali più apprezzati. I finanziatori internazionali si  sono accorti che i vecchi capaci di costruire un elegante e duraturo muro a secco – a Ponza songh’ i parracine) – non ci sono più, e i giovani non ne conoscono neanche il nome.
    Mi sono armato di pazienza e di spirito ecologico e ho insegnato come poter “costruire” una parracina: utilizzando gabbioni ecologici, che riempiti di materiale roccioso reperibile sul posto e lasciando spazi liberi per la terra su cui fare attecchire le piante, si sono dimostrati un eccelso sistema di “parracinare” (spero vi piaccia il neologismo) ecologicamente il territorio e far sembrare alla fine un paesaggio tutto naturale dove il supporto meccanico, il gabbione iniziale, viene fagocitato dalla lussureggiante vegetazione garantendo stabilità alle scarpate, protezione agli smottamenti e corretto defluire delle acque meteoriche di scolo grazie a uomini con la zappa che mantengono sgombri i canaletti scavati all’uopo. Ponza avrebbe bisogno di qualcosa del genere.
    Ricordo infine che in Italia, alle Cinque Terre, moltissimi studenti hanno costruito parracine in cambio di qualche giorno di ospitalità nella stupenda cornice del mare ligure. E in quanto a mare, noi a Ponza non siamo certo da meno.

     
     

      

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