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Viaggi (4). Mal d’Africa

di Sandro Russo
la-mia-africa-allegoria-by-aster [1]

 

“…Ora io so una canzone dell’Africa;
la canzone della giraffa e della luna nuova sdraiata sul dorso,
dell’aratro nei campi e dei visi sudati degli uomini che raccolgono il caffé…
Ma ricorda l’Africa una canzone che parla di me..?
Vibra nell’aria della pianura il barlume di un colore che io ho portato..?
C’è tra i giochi dei bambini un gioco che abbia il mio nome..?
Proietta la luna piena sulla ghiaia del viale un’ombra che mi somiglia..?
Vanno… in cerca di me le aquile del
‘Ngong?”

   [Karen Blixen: “Out of Africa” (1937); ‘La mia Africa’ (1959); Feltrinelli]

 

Grande l’Africa. Immensa e inconoscibile. Tranne i pazzi e gli eroi nessuno avrebbe la presunzione e l’ardire di avvicinarla, o di andarla “a scoprire”. Per fortuna c’è una stagione della vita in cui si è giovani; ci si imbarca in imprese pazze o bizzarre – perché si sta appunto vivendo – senza intenti ben definiti e senza il bisogno di capire perché. Quello – la ricerca del senso – è un tema che appartiene ad una stagione successiva della vita. Quasi per tutti è così.

Ritratto del viaggiatore, da giovane. La ‘prima volta’ – azzardo o salto nel vuoto che lo si voglia chiamare – c’è, credo, per tutti i viaggiatori. E’ una strana sensazione, quella di non riuscire a immaginare il giorno dopo. Quando quel che ti aspetta, il posto dove andrai, sono talmente indeterminati da non riuscire a figurarti il paesaggio che ti farà da sfondo, le persone intorno… Come se il mondo conosciuto finisse al momento dell’imbarco e di lì in poi ci fosse il vuoto.

Prima c’erano state esperienze abbastanza comuni: viaggi su e giù per l’Italia, qualche paese europeo; la ‘botta di vita’ al festival dell’isola di Wight, ancora da studente universitario.
Ma ora è tutta un’altra cosa.
Ohé!…Questa è l’AFRICA!
Siamo nel 1978; non è ancora l’epoca del turismo di massa o del Camel Trophy (…la sua prima edizione si tiene solo nel 1980); men che mai dei computer e dei telefoni cellulari.

Una tipica proposta del caso. C’è un progetto del Ministero degli Esteri, attraverso il “Servizio di Cooperazione con i Paesi in via di Sviluppo”, per istituire una università in Somalia. Nei primi anni diverse università italiane inviano personale docente; col tempo si dovrebbero costituire dei docenti locali e la struttura dovrebbe diventare autonoma.
Ora accade che ‘il Professore’ che abitualmente partiva per queste brevi missioni di circa tre mesi, ha un problema familiare; tutti gli altri possibili sostituti nella scala gerarchica si defilano con varie motivazioni, fino a giungere a chiederlo all’ultimo arrivato, al più giovane del gruppo. Me!

Alcune occasioni non le scegli spontaneamente, ma quando ti arrivano non puoi rifiutarle…
Quindi impacchettato e messo sull’aereo: pronto al martirio… Questo era lo stato d’animo alla partenza.
Neanche sotto ipnosi, credo, riuscirei a ricordare cosa ho pensato durante il volo: ore sul deserto – il Sahara! …ero sul Sahara! – con la testa appoggiata al finestrino, a seguire il serpeggiare del Nilo blu tra le sabbie.

Ricordo l’arrivo. I pantaloni diventati subito roventi al contatto con la pelle che per qualche minuto ancora mantiene la temperatura condizionata dell’aereo. L’aeroporto: una pista di cemento che finisce nella sabbia; il trasferimento a piedi sotto un sole rovente fino alla casamatta in fondo alla pista; i capannelli di persone con le tuniche della gente del deserto accoccolate a terra intorno ad un piccolo fuoco e ad un bricco di acqua che bolle. Odori, suoni nuovi, inusuali.

Poi il trasferimento in jeep con l’uomo della Cooperazione, attraverso dune di sabbia mai viste prima; arbusti stenti e spinosi, capanne e baracche di lamiera e di fango, sempre più fitte.
La cintura intorno alla città è immensa; sembra non debba finire mai. Poi si arriva nella città vera e propria. La sistemazione provvisoria è in un fatiscente alberghetto coloniale: ‘La croce del sud’.

mogadiscio-nel-78 [2]Mogadiscio nel ’78

Degli oltre tre mesi passati a Mogadiscio ho un ricordo indelebile: a tutti gli effetti la prima vera esperienza di diversità, di ‘altro da me’.

I primi giorni sono di acclimatazione, i colleghi da conoscere, il luogo di lavoro, gli studenti cui avrei fatto lezione. Un collega cortese, che conosco da Roma, si occupa di accompagnarmi una delle prime sere in un localaccio: ‘Dal cinese’, per la ‘ricolonizzazione batterica intestinale’.
Fidati di me… – mi dice – Io faccio il gastroenterologo…
Effettivamente..!
Poi a mia volta anch’io, da buon ospite, accompagno altri “novellini” dal ‘Cinese’: se ne ricava una diarrea da lasciare tramortiti, ma poi ci si riprende e da quel momento si può mangiare (quasi) di tutto.

Dopo vari tentativi trovo un alloggio diverso dall’albergo.
Funziona così: la Cooperazione mette a disposizione dei ‘professori’ varie tipologie di case; ciascuna ha un responsabile locale – cuoco, domestico, tuttofare – che pensa agli aspetti pratici della conduzione domestica. Questa persona è indicata comunemente come ‘boy’ se è un uomo, ‘boiessa’ se una donna (..ah! il genio italico per i nomi!).

C’è un numero variabile di ospiti, da tre a cinque, a seconda delle stanze disponibili. Mi ritrovo con un pediatra di Roma e sua moglie e con una anatomo-patologa di Firenze. Abbiamo (ovvero, la casa dispone di-) un boy che si chiama Jeylani; parla un misto di italiano e inglese e non ci sono problemi a capirsi.

A Jeylani devo tutta la mia gratitudine, per avermi fatto scoprire, con le conoscenze di uno del posto, un mondo completamente nuovo.
Con Jeylani vado al mercato, nei negozietti per compere, a procurare la legna per il fuoco (per un’emergenza bellica – la guerra dell’Ogaden – le bombole di gas sono introvabili); sto anche a guardarlo mentre cucina sulla carbonella.

Mi dice i nomi locali di piante e fiori, che poi vado a cercare nei miei libri; mi spiega stranezze locali, che uno straniero mai riuscirebbe a capire.
Per esempio, perché gli asini (diffusissimi) portano una specie di braghe fatte con la carta resistente delle sacchette di cemento, fermate alla coda e alle zampe posteriori con legacci di fortuna. Per usare gli escrementi come concime – uno pensa – o per non sporcare in giro o anche, data la maggioranza musulmana, per non far vedere ‘le vergogne’ asinine…
Macché! Gli escrementi vengono raccolti per essere impastati con il fango e così fungono da collante per il rivestimento delle capanne di legno e frasche; il fango da solo sarebbe dilavato dalle prime piogge, di quelle violente che ci sono qui. Una volta secco il tutto è assolutamente inodore.

Il mercato è una continua fonte di meraviglie. Nei sacchi di juta appoggiati tra la polvere ci sono semi e cereali mai visti; su banchi improvvisati, frutti anch’essi sconosciuti e decine di varietà di banane, oltre a quelle che conosco: da minuscole a enormi, quelle rosse, quelle piccole al sapore di mela che chiamano ‘zanzibarine’. Quando, passando con Jeylani, vedo qualcosa di incomprensibile, lo tiro per la jellaba e lui mi spiega; come davanti a un banco dove sembra vendano mosche: blocchetti di mosche. Jeylani si avvicina e le scaccia con la mano: è il banco dell’uva passa.

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Il mercato di Mogadiscio. Sono in vendita, per uso alimentare, una varietà incredibile di semi, tuberi e radici, a noi occidentali del tutto sconosciuti

L’edificio dove si svolgono le lezioni é fuori città, quattro chilometri circa; ci si arriva con un percorso in jeep, su una strada prima asfaltata, poi di sabbia tra le dune.
All’ombra dei pochi alberi, o tra gli arbusti spinosi, ci sono sempre donne che preparano il the – chai – dolcissimo, con il latte di cammella ed una nota di affumicato, per i piccoli otri di pelle in cui è tenuto.

 

Nota
Un episodio relativo all’esperienza africana dell’autore è già stato raccontato sul sito: leggi qui [5]

 

[Viaggi (4). Mal d’Africa (prima parte) – Continua qui [6]]