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Tutto è bene quel che finisce bene

di Giovanni Ronca
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Storie di mare che possono nascondere pericoli e creare vere tragedie se non si tira fuori quell’esperienza che solo chi pratica il mare, rispettando le sue regole, può acquisire. Una delle tante emozioni che Ponza provoca.

 

Appassionato di pesca amatoriale, vi dedicavo ore senza mai annoiarmi; godevo il mare in tutta la sua grandezza, sia quando era calmo che quando era burrascoso. Conoscevo i fondali e pertanto i sub mi chiedevano spiegazioni e consigli dove potevano tentare qualche immersione importante.

Dopo tante insistenze accontentai Giovannino, ottima esperienza da sub, figlio di un famoso sub ponzese degli anni ’50 – ‘60. Con molta attenzione gli feci vedere la carta nautica e gli dissi: “Domani andremo qua”.
Puntai il dito sul punto preciso: gli brillavano gli occhi dalla gioia. Mi chiese se poteva portare la moglie con il figlio, un ragazzo di dieci anni, che potevano essergli d’aiuto per le varie necessità.

La secca era molto conosciuta dai pescatori per il lavoro che svolgono con varie attività, ma per i sub era un luogo fuori dalle zone abituali. Il lembo di terra più vicino era ad una distanza di circa tre miglia, mentre da Ponza distava circa sette. Il punto in cui ci trovavamo era al limite di una secca con un fondale medio di circa 40 metri; bastava spostarsi poco più a sud e iniziava lo strapiombo. Su questo fondale poggiava uno scoglio molto grande: bastava girarci intorno per completare l’immersione. La sua sommità raggiungeva i 20 metri sotto il livello del mare.
Guardammo attentamente intorno e notammo dei segnali galleggianti per le reti da pesca: erano i petagni (così li chiamano i pescatori locali) non molto lontani da noi; ciò non mi lasciava tranquillo, volevo dirigermi in un altro posto. Ma la mia ansia li deluse, perché avevano sentito parlare di quella zona e quando proposi loro di cambiare posto, mi convinsero di non preoccuparmi più di tanto, perché Giovannino era bravo, molto prudente e attento, così decisi di accontentarli.
Mi diede alcune istruzioni, spiegandomi come avveniva la decompressione alla fine dell’immersione ed aggiunse: “Ho un’autonomia di 40 minuti, rimani fermo dove siamo, dopo 25 minuti fammi trovare l’ancora attaccata alla barca a 20 metri di profondità, in modo che scandisco i tempi di risalita per la decompressione”.

Mentre Marina e Cosimo consegnavano le ultime cose necessarie all’immersione, io rimasi al timone e mi regolavo orientandomi sulla distanza dei due segnali delle reti, cercavo di non perdere di vista le bolle che risalivano in superficie, per l’ossigeno consumato, ma il venticello di maestrale che increspava la superficie del mare, mi impediva di seguire con lo sguardo quelle bolle d’aria che venivano a galla in modo irregolare, così mi concentrai solo a mantenere la posizione concordata.

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Mentre i minuti passavano lentamente, i miei occhi scrutavano la superficie del mare con la speranza di vedere le bolle. Ma niente. Marina e Cosimo li vedevo tranquilli e questo mi rendeva un po’ meno preoccupato, comunque ero per niente tranquillo.

Dopo 25 minuti di attesa, come d’accordo, calo l’ancora a 20 metri di profondità, ma non vedevo bolle risalire dal fondo del mare. Ogni minuto che passava era un tormento, il tempo passava e niente succedeva. Chiedevo se questi momenti di attesa fossero nella norma o ero io che mi preoccupavo un po’troppo, dissero che spesso succedeva di andarlo a recuperare nelle vicinanze, ma ciò non mi convinceva; essendo in mare aperto, questa situazione mi preoccupava ancora di più. E i minuti passavano e nulla accadeva. Cominciavo a sentirmi seccare la gola, provando un senso di malessere. Marina si rese conto del mio stato d’animo e mi disse che a quel punto non sapeva cosa pensare. Non mi rimaneva altra scelta se non quella di attivare il portatile whf che conservavo gelosamente, per attivare il soccorso se nulla fosse successo da lì a poco.

I minuti trascorsi, fino a quel momento, erano più di 40. Mentre mi accingevo alla chiamata, Marina che fino a quel momento aveva tenuto nascosti ansia e timore per quanto stava accadendo, con voce tremante mi supplicò: “Spegni il motore, perché Giovannino porta sempre con sé un fischietto per attirare l’attenzione”. Con grande timore pensavo che ciò non potesse risolvere il dramma che si stava manifestando. Comunque volli ascoltarla, spengo il motore… Un silenzio assoluto.

Ad un tratto Marina grida: “Senti! …senti!”

Anche io sentii quel fischio acuto, saltai sul tetto della cabina per guardare da dove proveniva quel suono che arrivava chiaro perché era facilitato, in quanto eravamo sottovento. Non posso descrivere quel momento: vidi sull’acqua, alla distanza di circa 400 metri, una muta nera e la bombola galleggiare. Mi feci coraggio e a tutta velocità, pieno di ansia, paura e trepidazione, dirigo la barca verso quelle sagome galleggianti temendo il peggio.

Giovannino affiorava con la muta leggermente gonfia, senza piombo e senza fucile, con il volto tranquillo. Ci guardava con un leggero sorriso. Mi domandavo se ciò fosse vero o ero io ad aver perso i sensi. Poi capii il perché di quel sorriso beffardo.

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Quei 40 minuti di immersione erano stati i più belli della sua esperienza di sub, mentre per noi tre in barca furono un tormento indescrivibile; erano stati i momenti più brutti ed angosciosi che ho vissuto e che ancora non riesco a descrivere.
Mi domandavo: che sarebbe successo se lo avessimo abbandonato per cercare aiuto altrove?
E se Marina non si fosse ricordata del fischietto miracoloso, chiedendomi di spegnere il motore per ascoltare in silenzio?

Lo aiutai a salire in barca. Gli chiesi dove aveva lasciato il fucile con i piombi. Mi rispose in modo più serio, per evitare che io, preso dalla rabbia e dallo sconforto, lo costringessi ad abbandonare sul fondale di quella secca il fucile con cui aveva arpionato una cernia di ben 15 chili. Preparai un piombo e un galleggiante per segnalare il posto, con la promessa che saremmo tornati il giorno dopo per il recupero solo se avesse dato chiare e convincenti risposte alla mia domanda: “Come mai sei finito così lontano dal punto fissato?”
Mi rispose che un filo di corrente sottomarina lo lasciava perlustrare il fondale usando pochissima energia, mentre il fondo diventava sempre più interessante e avvincente, regalandogli emozioni straordinarie che non aveva mai provato prima, finché si trovò “a tiro” di una cernia.
Gli chiesi: “Ma ti sei reso conto di ciò che provavamo noi che stavamo in barca?” Rispose un po’ rammaricato con un semplice: “Certamente”.
Poi aggiunsi: “Dimmi, come hai fatto a risalire senza fare la decompressione?”
Rispose che non era la prima volta. A malincuore gli promisi che il giorno dopo saremmo ritornati a recuperare la cernia e gli attrezzi. Così facemmo.

Da quel giorno i sub con bombole e fucili non trovarono più posto sulla mia barca. Furono bene accolti soltanto i sub in apnea, con macchina fotografica, bolentini e canne da pesca.