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Atlante delle isole remote, di Judith Schalansky

recensione di Arturo Gallia
Atlante_delle_isole_remote. Il libro [1]

 

Judith Schalansky, Atlante delle isole remote
trad. di Francesca Gabelli, Milano,
Bompiani, 2013, pp. 144, ill.

La copertina rigida color carta da zucchero, il taglio delle pagine giallo ocra, come a voler ricordare un vecchio libro, una rassegna dettagliata di cinquanta piccole e sperdute isole, degna di una Encyclopédie: la prima impressione che si ha è quella di tenere tra le mani un prodotto editoriale classificabile più che altro tra le strenne natalizie, e che dopo essere stato scartato rimane poggiato sul ripiano della libreria, in attesa di una collocazione futura e chissà di una consultazione veloce.

Ma tale impressione cambia non appena si apre il volume: nelle controguardie e nei fogli di guardia sono raffigurati due mezzi planisferi con la localizzazione puntuale delle cinquanta isole raccontate e il sommario mette in luce, in realtà, una struttura molto più organizzata e funzionale di quanto ci si possa immaginare. E se i dubbi continuano a persistere, è sufficiente leggere la Prefazione dell’autrice per rendersi conto di trovarsi di fronte a un libro certamente pensato per la più ampia divulgazione possibile, ma ideato e realizzato con tutti i crismi della ricerca geografica, e scientifica in genere.

Possession Island. p. 58 [2]
Da una passione infantile, gli atlanti e la scoperta di quel mondo piatto dalle forme sinuose e dai nomi misteriosi, a una percezione del proprio spazio (ad esempio la Germania dell’Est) che da un certo momento in poi perde la sua forma nota, quelle linee che lei aveva imparato a memoria seguendole con il dito, e ne acquisisce un’altra, più ampia sconosciuta, un nuovo spazio che non basta a una sola pagina dell’atlante: «da allora diffido dei planisferi politici, dove i paesi sono distesi sul mare blu come asciugamani colorati».

Mentre permane l’apprezzamento per le carte fisiche, perché vanno «al di là di tutte le frontiere create dall’uomo»: qui le linee, il tratto, il colore, l’ombreggiatura danno forma alla Terra. Linee ben definite demarcano confini fisici netti, i contorni delle isole, che segnano il passaggio tra terra e mare.

Talvolta, il tratto di mare che separa un piccolo territorio delimitato, un’isola, uno più esteso, la terraferma, è tanto ridotto che nelle carte vengono raffigurate nelle stesse tavole.
Ma «in realtà c’è tutta una serie di isole talmente distanti dalla loro madrepatria da non rientrare nelle carte nazionali […] qualche volta ottengono un posto in un angolino, stipate dentro la cornice di un riquadro, sospinte ai margini, con una scala tutta loro, ma senza alcun informazione sulla loro reale posizione».
E la distanza di un’isola e il suo essere remota è solo una questione di punti di vista: chi la abita, certamente, non ritiene remota la propria patria, e addirittura c’è chi ritiene il proprio lembo di terra «l’Ombelico del mondo» (come ad esempio accade per l’isola di Pasqua).

È proprio su questi piccoli territori insulari che si concentra l’attenzione dell’autrice: «Cinquanta isole [remote] dove non sono mai stata e mai andrò».

La raccolta suddivide le isole oceanograficamente: tre nel Mar Glaciale Artico, nove nell’Oceano Atlantico, sette nell’Oceano Indiano, quattro nell’Oceano Antartico e la restante parte, la più consistente, nell’Oceano Pacifico.
Per ogni isola viene presentata una scheda, nella pagina sinistra, che raccoglie alcune informazioni di base e una breve descrizione.
Le informazioni di base sono uguali (per tipologia) per tutti i casi: è indicato il mare di pertinenza, le coordinate, la denominazione, riportata anche nella lingua locale, lo Stato di appartenenza, la dimensione e lo stato insediativo, ovvero se è disabitata o il numero di «abitanti» (stanziali) e di «abitatori» (temporanei).

Un piccolo globo indica la posizione dell’isola sulla superficie terrestre, mentre due grafici lineari forniscono informazioni sulla distanza di essa dalla terraferma o da altri lembi di terra, anche insulari; e sugli eventi che l’hanno interessata nel corso del tempo, come la prima scoperta, l’esplorazione, o altri momenti importanti legati a essa. Nella pagina destra, è rappresentata una carta dell’isola (sempre nella scala 1:25.000), nella quale sono indicate le emergenze antropiche (insediamenti, vie di comunicazione…) e naturali (rilievi, corsi d’acqua…) che si possono incontrare.

La parte che, evidentemente, è diversa per ciascuna scheda è quella descrittiva, utilizzata dall’autrice per narrare fatti storici o curiosità di diversa natura (talvolta un po’ troppo somiglianti alla rubrica Forse non tutti sanno che… della «Settimana enigmistica»). Dalla lettura di queste descrizioni emerge un quadro ben diverso da quello costruito nell’immaginario letterario e dal marketing turistico delle isole delle tre S (sea, sun, sand), dove splende sempre il sole, dove l’acqua del mare è calma e cristallina e si congiunge a distese di sabbia bianca finissima. Queste isole remote sono luoghi difficili da raggiungere e, spesso, è difficile lo sbarco, per la risacca che si infrange su una costa inospitale.

E quando si forma un insediamento, quasi mai si ha la creazione di una comunità florida e in armonia, quasi utopica, ma ci si trova di fronte un luogo dove il diritto pubblico sembra perdere di funzione, e «si impongono costumi sconcertanti», come
uccisioni, crimini efferati o forme di cannibalismo, fenomeni che talvolta «sembrano addirittura programmati».

Comunque sia, abbiamo di fronte un panorama di realtà micro-insulari che costellano la superficie acquea del globo che rimangono sospese nel nostro immaginario, e solo raggiungendole è possibile dar significato effettivo al significante.
Dopo aver apprezzato la presenza di un Glossario e di un consistente Indice, chiudiamo l’ultima pagina: fluttua davanti a noi un immaginario polisemico e nel remoto del nostro inconscio ci viene quasi da voler rispondere all’incipit dell’autrice («dove non sono mai stata e mai andrò»), «perché no?».

Atlante-delle-isole-remote-Judith-Schalansky [3]

 

Di Arturo Gallia. La recensione è stata pubblicata sul numero 3 del 2015 del Bollettino della Società Geografica Italiana (Recensioni e appunti di lettura, p. 685)