Ambiente e Natura

Ienno mare mare

di Francesco De Luca
Mare mare. Da un racconto di Mario Marulli

 

L’espressione dialettale trova traduzione banale in: andando per mare. Che ha significato troppo generico, banale, manca di spirito.

Nell’espressione dialettale invece oltre al significato fisico c’è alluso il gusto dell’emozione.

Anzitutto: chi va mare mare? Non il pescatore di professione che dal mare deve trarre di che campare e non può attardarsi sugli aspetti emozionali. Perché l’andare per mare senza uno scopo preciso induce a soffermarsi su fattori impalpabili, a discapito delle urgenze della pesca.

Va mare mare il pensionato con entusiasmo e tempo a disposizione, va il pescatore per vocazione, privo ormai del gozzo, epperciò dirottato verso la barchetta a remi. Va mare mare lo studente tornato nelle vacanze estive, spinto dai genitori a non tagliare il cordone ombelicale con la terra della sua origine e gli usi della sua cultura. Tutti centrati inequivocabilmente sul mare. In definitiva va mare mare chi vuole intrattenersi col mare, chi ne vuole godere.

Ma… quale mare? Quello delle calette, delle chiane (scogli affioranti) a poche decine di metri dalla costa, delle grotte, dei faraglioni.

Zitti zitti ci si avvicinava alla costa bianca sotto il cimitero. Il ragazzo ai remi, l’uomo scendeva e spandeva sulla roccia lambita dall’acqua il verderame. Dalle fessure, dai piccoli pori, uscivano, perché irritati, ‘i tremmuline: lunghi vermetti sottili, che l’uomo poneva nel barattolo. Servivano per innescare le lenze ‘a surece.

Ma è presto, troppo presto per la pesca a surece, meglio fare una puntata a perchie (sciarrano).

L’esca per le perchie la si procurava al Bagno Vecchio. Erano i rufule (lumaca di mare). Occorreva poi una pietra piatta che fungesse da piano su cui battere e un’altra pietra per martello. Tutto ampiamente a disposizione nei sassi sulla spiaggia.

Si andava a perchie. Il posto non si rivela nemmeno sotto tortura. Sul fondo ind’ i muorze e ‘i chiazze ‘a rena, le perchie venivano su. Perché ‘a perchia è vorace. Se c’è sul fondo abbocca che neanche si è gettata tutta la lenza. E dunque non si fa in tempo a buttare che devi tirare. La fretta fa essere maldestri, così il filo si deposita in modo disordinato. Si scoccia il pesce, si ispezionano gli ami, si rimette l’esca, si rigetta nelle acque. Tutto bene. Il piombo tocca il fondo e le perchie abboccano che è una meraviglia. Si ritira, si scocciano, e qualcuna non va nel secchio, si agita sul pagliuolo, dove c’è il filo. Disastro. Il filo si imbroglia. Occorre pazienza. Ma intanto la corrente scarrozza la barca dal posto dove si pescava. Nel secchio le perchie si agitano per l’ultima volta. Non c’è male, qualcosa si porterà a terra.

C’è insieme agli altri anche una tracina. Eeh… quella bisogna scocciarla dall’amo con attenzione. L’uomo ha portato appositamente un panno, così da tenere al sicuro le mani.

Ma ecco che l’uomo fa cenno che qualcosa di grosso ha abboccato. L’attenzione si concentra. Si tira e viene su un polpo. Strano. Anzi, doppiamente strano. Il polpo non dimora su quei fondali e poi, con la stessa facilità si aggancia e si sgancia dall’amo. Chisto ha vuluto proprio murì !

Il sole comincia a farsi sentire. Uagliò vulimmo fa’ marenna? ” L’interrogazione è retorica perché il languore si fa sentire. A mare rigorosamente frutta. Nient’altro. Pesche, albicocche. Una sciacquata a mare e via.

E adesso? Adesso si continua. Beh, si vorrebbe continuare ma le perchie sono territoriali. Stanno vicino ai loro scogli e non si muovono. Mentre la barca si sposta a piacimento della corrente. “Allora vediamo”: si riprendono i segnali: la forcina deve avere nel mezzo il faro, la punta del faraglione non deve uscire tanto fuori. Ci siamo, sul posto ci siamo. Macché, delle perchie manco l’ombra

Ci si sposta un po’ più in là, no, qua c’è solo sabbia. Un po’ più in qua, neanche.

L’uomo decide di puntare alle Formiche. “ ’U canuttiello è leggiero, ci si arriva in poco tempo. “Qui ci sono di sicuro”

Si buttano le lenze. Neanche una toccata. Ah, sì, pizzicate brevi e continue. Songo i cazzirré (donzella). Pesci più difficili da togliere dagli ami. E poi, non hanno la stessa carne delle perchie. Decisamente peggiori.

L’uomo decide che è ora di andare a surece (pesce pettine). Il ragazzo freme. Sotto il sole per tutta la mattinata. Ci si avvicina alle Formiche e il ragazzo si tuffa.

Idea! “Lì su quello scoglio ci dovrebbero essere ‘i patelle muntagnole” – suggerisce l’uomo.

Facile da eseguire l’ordine. Le patelle muntagnole stanno a fior d’acqua, non bisogna immergersi. Se ne prendono quel tanto che possono servire per gli spaghetti al sugo. L’acqua delle Formiche ha colore perlaceo perché il fondale, che è di basalto, è ricoperto di una alghetta crespa e bianca. Con l’azzurro quelle acque sembrano madreperla.

Si ritorna sulla barca e ci si dirige dove la sabbia impera. Si cambiano le lenze. Queste hanno ami più piccoli, adatti ai denti sorcini dei surece.

‘I trummuline qui fanno la loro figura. ‘I surece ne vanno ghiotti.

Il secchio è colmo. Si rientra. L’uomo lascia la lenza a mezz’acqua mentre i remi muovono la barca. Ogni tanto saggia il peso della lenza. Ad un tratto si ferma. Qualcosa ha abboccato. Tira su un pesce. Più grande e tutto azzurro.

Il sole adesso è alto ed è per questo che picchia. Vicino al faraglione della Madonna il ragazzo si rituffa per rinfrescarsi. Un attimo. Va sotto un metro e ritorna su . Sul fondo giace una nassa. Lo dice all’uomo. “Vado a vedere cosa c’è”.

“Non è nostra, andiamocene”. Il ragazzo si immerge e va sotto quei quattro-cinque metri. Nella nassa si agitano tante sagome argentee. Ritorna su e agitato dice: “E’ chiena d’ occhiate”

“Andiamo via” – risponde l’uomo.

E’ più forte di lui. Si rituffa il ragazzo. La nassa è ancorata al fondo con un sasso. Rispunta la testa dalle onde. ‘U canuttiello è lontano. Il ragazzo arranca per raggiungerlo.

Nell’abbraccio del porto la contesa col mare si stempera in intesa.

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