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L’esperienza e la memoria (2). L’istruzione

di Pasquale Scarpati

con dedica a Franco De Luca

Nel tempo in cui la propria firma era composta da due tratti di penna tremolanti a forma di croce o le parole scritte erano semplicemente segni astrusi su un foglio bianco oppure le cartine geografiche non avevano alcun senso (buffo ed orribile nello stesso tempo), pochi erano i bambini che riuscivano a concludere il ciclo della scuola elementare.
Le cause erano molteplici tra cui: la lontananza dell’edificio scolastico dalla propria abitazione, la mancanza di strade e di mezzi di comunicazione, la povertà delle famiglie che preferivano mandare i propri figli ad imparare un mestiere piuttosto che mandarli a scuola considerata da molti una “perdita di tempo”.

A scuola anni '60 [1]
Il piccolo Salvatore, forse stanco per i lavori campestri o annoiato per la lezione ripetitiva, candidamente chiese: – Signor mae’, pozz’ durmi’ nu’ poch’?
Quello non senza meraviglia, benevolmente rispose: – Mitt’ ’a capa ’ncopp’ u band’,  figliu mie!.
Visto che quel posto per il bambino era comodo per schiacciare un sonnellino, il maestro lo fece rimanere colà anche l’anno successivo e non so per quanti anni ancora. Molti, infatti, si vantavano di aver frequentato la prima elementare per ben… nove anni; tanti quanto prevedeva il limite massimo della legge Coppino.
Questo perché se un bambino non riusciva a raggiungere almeno la sufficienza in tutte le materie era “inesorabilmente” o rimandato a settembre (massimo 4 materie) oppure “bocciato” o come si scriveva, ben sottolineato in rosso, “respinto”.

W la scuola [2]

Così alcuni abbandonavano totalmente la frequenza della scuola oppure la riprendevano dopo un po’ di anni. Pertanto non era raro vedere ragazzi adolescenti di 13 o 14 anni sedere nei banchi delle elementari. C’era poi chi dopo avere sostenuto gli esami di 5^ elementare aveva dovuto abbandonare del tutto gli studi. Per loro agli inizi degli anni ’70 furono istituiti dei corsi serali (le cosiddette 150 ore) al fine di far conseguire il diploma di scuola media inferiore. In massa si iscrissero, vogliosi di apprendere e di conseguire la licenza media che allora aveva ancora una certa valenza ed era necessaria per accedere a vari concorsi o per avanzamento di carriera.

Ed anche quella, per me, fu un’esperienza memorabile dato che ognuno di loro, adulti, di cui alcuni sessantenni, aveva un proprio modo di pensare e, tra l’altro, non nascondeva le simpatie per questo o quel partito e pertanto, spesso, la discussione verteva su argomenti di attualità e molto concreti. In questa palestra di discussioni anche animate, mai incivili e mai infarcite di parolacce, a me, insegnante ancora alle prime armi, toccò non solo mediare tra le parti ma rendere anche gradevoli le lezioni e soprattutto adeguarle alla loro età.
Sembra che ci sia riuscito perché, ancora oggi, quei pochi che sono rimasti volentieri si soffermano a scambiare due chiacchiere.
Non era semplice raggiungere la sufficienza sia perché gli insegnanti erano molto esigenti, sia perché il discente non aveva gli strumenti né il tempo per studiare. Specialmente se figlio di povera gente. Nel pomeriggio, infatti, doveva aiutare i genitori nel lavoro e, tornato a casa, stanco, trovava oltretutto un’abitazione piccola, priva di ogni confort, intasata di persone e quindi poco adatta per lo studio, inteso come semplice acquisizione di contenuti; pertanto, anche per questi motivi, il più delle volte risultava impreparato all’interrogazione o non aveva svolto i compiti assegnati che, tra l’altro, erano uguali per tutti.
Gli insegnanti, poi, non erano obbligati a tenere in considerazione l’ambiente di provenienza e/o le capacità del discente, e molti di loro si limitavano a prendere semplice nota della loro preparazione o impreparazione.

Il registro scolastico [3]

Il registro scolastico

Oggi gli insegnanti nella valutazione dei discenti dovrebbero avere il supporto di un’equipe atta allo scopo, chiamata per l’appunto: psico-socio-pedagogico che dovrebbe operare in ogni scuola ma che spesso invece è latitante.
Se ne fece un gran parlare quando venne istituita, poi non se n’è saputo più nulla pur essendo stata segnalata al programma Chi l’ha visto”! E pertanto sono costretti ad “ arrangiarsi”.

A loro, pertanto, bastava solo e soltanto che l’alunno portasse i compiti assegnati ben fatti; altrimenti avrebbero segnato gli errori con la matita blu (quelli più gravi) e con quella rossa( quelli meno gravi). Poiché erano anche certosini, ad ogni segno di matita blu corrispondeva un voto in meno (questi iniziavano da 10 se non da una cifra in meno) e ad ogni segno di matita rossa veniva tolto mezzo voto.
Così la valutazione era meramente numerica con i vari mezzi voti oppure i meno meno posti a destra o a sinistra del voto. Ma la didattica andava ad aggrovigliarsi anche con le punizioni. Vere e proprie umiliazioni per gli alunni ritenuti o “ciucci” o troppo vivaci. Ai primi si apponevano sulle orecchie dei coni di carta (le cosiddette orecchie d’asino), i secondi erano castigati con torture medioevali: in ginocchio dietro la lavagna con il granone sotto le ginocchia (e per lo più si indossavano pantaloncini corti) oppure bacchettate o anche sonori ceffoni o altri sistemi ideati dagli insegnanti.
Oltre a questo i bambini un po’ discoli o impreparati cronici si punivano mettendoli all’ultimo banco (quando invece avrebbero dovuto sedere nei primi). Pertanto i rampolli di famiglie agiate, avendo ogni cosa a disposizione tra cui anche il tempo, erano gli unici a poter frequentare assiduamente e con un certo profitto (in base alle capacità) la scuola del tempo. A tutto questo si aggiungeva che i genitori deputavano agli insegnanti ogni facoltà e se qualche figlio osava protestare, il più delle volte riceveva ‘u riést’ a’ casa.
Perciò spesso i bambini covavano dentro di sé la repressione e la rabbia che esplodeva il più delle volte nei confronti dei coetanei nei momenti di confronto e nei momenti che avrebbero dovuto essere di svago come durante i giochi. Così a volte, dopo un alterco, si passava alle “vie di fatto” anche con mezzi contundenti (pietre o altro).
Ritornati a casa si riceveva ancora una volta “il resto” perché dicevano: si doveva essere attenti, non frequentare certe amicizie o non fare certi giochi.

Giochi con le spade [4]

D’altronde era il tempo in cui gli adulti non senza una certa enfasi solevano dire “Mazz’ e panell’ fann’ i figli bell’”.
Sarebbe lungo e tedioso dissertare sul perché di questi metodi coercitivi e piuttosto duri. I motivi possono essere diversi ma tutti, per buona parte, riconducibili alla precarietà della vita, alla paura degli adulti che qualsiasi danno alla persona sarebbe potuto essere irrimediabile (non esistevano infatti valide soluzioni) e alle ristrettezze economiche che non consentivano di fruire di mezzi adeguati o di comprare medicinali atti alla guarigione.
A volte io, come per difendermi dall’assalto degli adulti e/o disapprovando quei metodi, mugugnando, osavo masticare: “Mazz’ e sempre mazz’ fann’ i figl’ pazz’” Ma nessuno mi dava ascolto: gli adulti camminavano per la loro strada e pertanto con i compagni, spesso, giocoforza per non soccombere, ero costretto ad usare lo stesso metodo; in una sorta di “reazione a catena”.

giochi-di-bimbi [5]

Cosicché pochi erano quelli che riuscivano ad affrontare l’esame di licenza elementare che aveva già una certa importanza: la maggior parte si perdeva per strada anche perché nel corso del ciclo delle elementari vi era, inframmezzato, un altro esamino da superare; così molti rimanevano analfabeti del tutto o semi analfabeti. Ciò era un vero dramma perché l’ignoranza potrebbe o porta ad essere preda di chi possiede la conoscenza , poiché quello, traendo esempi dal passato, li rapporta a sé anche se modificati e adeguati ai tempi in cui si vive, come dire li gestisce a proprio uso e consumo.
Per non parlare poi del dramma di chi doveva semplicemente apporre una firma. Si raccontava che un contadino dopo aver posto lentamente e con mano tremante la propria firma su un documento avesse esclamato: “E’ più pesante la penna che la zappa!” O forse voleva dire che anche lo studio era ed è faticoso.

scuola anni '50-'60 [6]

Dramma nel dramma per chi voleva inviare proprie e poche notizie a qualcuno lontano. Innanzitutto andava da uno “scrivano” (che a sua volta spesso sapeva “fare la ‘o’ col culo (fondo) di bicchiere” cioè sapeva a stento scrivere), poi nell’esplicitare il suo pensiero si esprimeva in dialetto e non era conciso.
Toccava, quindi, allo scrivano/interprete cercare di capire il concetto della persona analfabeta e tradurlo in lettere. A sua volta chi riceveva la lettera aveva lo stesso problema. Innanzitutto si recava da chi gliela leggesse e cercava poi di capire il senso. A tal proposito si racconta di quella donna che alla lettura della lettera ricevuta dal figlio soldato di leva, scoppiò in un pianto dirotto. A chi le chiedeva il motivo rispose: “Povero figlio mio, l’hann’mannat’ appis’ e allucc’ ancor’”. In realtà il figlio le aveva scritto che era stato mandato a Pisa, a Lucca e ad Ancona; ma lei aveva capito tutt’altra cosa. Non si sa se l’errore fu dovuto a chi aveva scritto, a chi aveva letto o a chi aveva sentito.
Poi si riproponeva lo stesso dramma per la risposta. Immagino, tra l’altro, quale significato, per un analfabeta, potesse assumere, ad esempio, una mappa geografica; probabilmente aveva la stessa valenza di una… mappina (strofinaccio) colorata

Un giorno la signora Sofia mi chiese: – Pascali’, me vai a fa’ ’na raccomandata?
Non so se lo fece affinché io potessi fare una nuova esperienza oppure quel giorno “le rincresceva” di andare all’ufficio postale ubicato nel palazzo comunale.
Fatto sta che, non senza esitazione e con un po’ di timore, accettai. Nulla di più semplice. Presentai la busta all’impiegato e lui stesso, presto presto, riempì una sottile striscia di carta, la staccò dalle altre e me la diede dicendomi il prezzo che dovevo pagare. Tirai un sospiro di sollievo: non avevo dovuto compilare nulla! Così erano i tempi!

Nei grossolani e rozzi banchi di legno intarsiati cioè scavati, con coltellini o altri mezzi, da coloro che li avevano preceduti, i bambini aspettavano l’insegnante che quando arrivava letteralmente saliva in cattedra ( questa, infatti, era sempre posta sopra una pedana). I bambini portavano il grembiulino nero ed il colore del fiocco era in base alla classe che frequentavano.

banchi-di-scuola anni '50 [7]
Alla sommità del banco vi era il calamaio con il nero inchiostro dove intingere il pennino. L’occorrente, oltre ai quaderni dalla copertina nera rugosa e dai fogli un po’ giallini con una linea rossa sul lato (non bisognava oltrepassarla) era composto dalla penna (in genere un astuccio di legno con un cerchietto di ferro all’estremità dove si inseriva il pennino), dalla carta assorbente che serviva per asciugare le macchie di inchiostro, dalla gomma e dalla matita. Il libro (sussidiario) era uno solo comprendente tutte le materie.

Si iniziava, in prima elementare, con le cosiddette mazzarelle (aste); a fare, cioè, un tratto di penna in verticale negli ampi spazi dei righi, i quali con il prosieguo degli studi divenivano sempre più stretti fino a diventare un’unica linea. Qualcuno sovrapponeva la propria mano su quella dell’alunno per guidarlo nella scrittura. L’orale era affidato soprattutto alla memoria. Per la numerazione si usava il pallottoliere. Sull’ultima pagina dei quaderni a quadretti era stampata la tabellina pitagorica che doveva essere mandata a memoria.
Della numerazione si riempivano pagine, mentre per quanto riguarda le lettere non bisognava uscire fuori dai margini e non superare il margine superiore ed inferiore del rigo.
Ma era un problema quando vi era il dettato perché bisognava non solo scrivere bene e senza macchie d’inchiostro ma anche correre dietro alle parole che l’insegnante proferiva in quel momento. Non era semplice per il fatto che si doveva dosare al punto giunto l’inchiostro. Se, infatti, si intingeva troppo la punta del pennino nel calamaio si faceva ’nu ’nguacchio, cioè l’inchiostro scivolava via e invece, di scrivere la parola, si imbrattava tutto il foglio per cui bisognava ricorrere ad abbondante carta assorbente. Se invece si intingeva troppo poco, non si riusciva a scrivere neppure una sola parola, per cui in fretta bisognava di nuovo intingere il pennino nel calamaio e poi, eventualmente, lasciare sgocciolare un pochino. Ma queste gocce birichine spesso preferivano depositarsi all’improvviso sul viso o sul grembiule del vicino di banco. Rimostranze da parte di quest’ultimo e deciso intervento dell’insegnante che passava subito a vie di fatto secondo il suo estro: bacchettate sul palmo della mano o addirittura sul dorso (per evitare che istintivamente l’alunno la ritirasse mandando il colpo a vuoto, la manteneva con la sinistra), o sollevamento per le basette o altro di cui ho già detto.

IV-elementare.-10-dicembre-1955 [8]

La IV elementare di Pasquale. Foto del 10 dicembre 1955

Così, per le troppe macchie d’inchiostro, spesso i fogli erano strappati o dall’alunno oppure dall’insegnante fino a che il quaderno si riduceva ad un solo foglio se non alla sola copertina.
Poiché non si buttava niente, i fogli venivano riutilizzati da alunni che davano sfoggio o della loro provenienza oppure delle loro capacità innate.
Molti infatti, forse reduci da un viaggio esotico nella foresta amazzonica, avevano appreso colà l’uso della cerbottana. Essa, più casareccia rispetto a quella usata dalla tribù dei Matis, era costituita da un pezzo di canna cavo nel quale era introdotto un pezzettino di foglio ridotto a pallina. “A uocchie a uocchie” quella rustica cerbottana era tirata fuori dalla cartella di cartone ed in essa era inserito il proiettile.
I più esperti, invece, vi inserivano ’nu cuppetiell un coppetto a forma conica, in cui, i più malevoli, inserivano anche una puntina di quelle che si usavano i scarpari (i ciabattini) per inchiodare le suole o i tacchi delle scarpe.
Il tiro era diretto verso qualche compagno di un banco anche lontano o qualche bambina. A volte era in linea dritta come la traiettoria di un cannone; a volte, lanciata verso l’alto, formava una curva balistica come quella di un obice, così da colpire in testa e disorientare il bersaglio che, a sua volta, poteva reagire anche nei confronti di chi non aveva commesso il misfatto.
Si attendeva, pertanto, sornioni e, in quest’ultima evenienza, ridacchiando, la loro reazione.

 

[L’esperienza e la memoria (2). L’istruzione – Continua]

Per la prima parte, leggi qui [9]