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Sottovoce. Di caccia e dintorni

di Rita Bosso

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Di caccia, di bracconaggio e dintorni: e se provassimo a parlarne sottovoce, dopo la caciara di prima, nell’assordante silenzio di questi ultimi giorni? Sottovoce per tentare di ragionare, per cercare di sollecitare la testa anziché la pancia, raccogliendo le riflessioni disseminate in alcune delle cose già scritte e pubblicate, rinunciando a una verità unica e ultima, lasciando a chi ne ha competenza la verità giudiziaria.

Non a caso le parole sagge, che mi sento di sottoscrivere completamente, vengono da uno che parla sempre sottovoce: “Non trovo scusanti” [2], afferma con tono perentorio Silverio Lamonica e, se ne intendo correttamente il senso, si rivolge non solo ai bracconieri ma anche a chi si è affannato a cercare scusanti, a chi ha provato a sviare l’attenzione: sappiamo tutti che una discarica richiama stormi di gabbiani che proliferano, che difendono con aggressività il territorio, che occupano stabilmente nicchie ecologiche a scapito di altre specie. Accade a Ponza come nel resto del pianeta e perfino in Vaticano, come ci ricorda la foto che correda queste righe.
Già all’asilo si apprende che il panda non è in pericolo per via delle doppiette ma a causa della riduzione del suo habitat; sappiamo che le catastrofi ambientali non sono provocate dai cacciatori; tutto questo, però, nulla c’entra con gli studi sulle migrazioni degli uccelli i cui obiettivi sono definiti – delimitati, anzi – con precisione ed enunciati con chiarezza (leggi qui [3]) come sempre accade nelle ricerche scientifiche, come mai accade nelle chiacchiere di piazza; tutto questo, però, non giustifica o spiega l’insofferenza o i tentativi di delegittimazione dell’azione dei volontari del CABS.

Biagio Vitiello attribuisce all’esperienza venatoria la nascita dei suoi interessi naturalistici, ingenerando sensi di colpa in noi ambientalisti da divano che conosciamo l’ambiente più che altro grazie ai documentari del National Geographic: a malincuore devo ammettere che ha ragione, devo riconoscere che è più sano, più autentico, più radicato nella storia e nell’antropologia il rapporto di Biagio con la quaglia che ha appena impallinato che non il mio attaccamento ai micetti, sterilizzati, nutriti a croccantini, accucciati a fianco a me sul divano nella visione del documentario di cui sopra, in definitiva assimilati alle mie abitudini e alle mie comodità.

In un post su facebook di non più di una settimana fa, quando la spavalderia imperversava, si sbraitava che, con la “staggione” alle porte, con tanti problemi da risolvere, non è il caso di perder tempo a parlare di caccia; superata la punta di fastidio di fronte all’implicito ma palese “lasciateci in pace a goderci qualche svago, che tra poco ricominciamo a faticare”, si può non riconoscere il frammento di verità contenuto nel post, quasi un lapsus freudiano sfuggito all’autore?
Si è parlato e urlato di caccia per evitare di ragionare d’altro, per dare un contentino, perché almeno dalla partita con la quaglia si esca vincitori, visto che in altre trappole si finisce tutti i giorni con entrambe le zampette.

Enzo Di Giovanni (leggi qui [4]) riesce ad estrarre parecchi spunti da questa vicenda, a cogliere la matrice antropologica della caccia e la sua collocazione nello spazio-tempo; la caccia si può forse assimilare a quelli che i biologi definiscono “organi vestigiali”, ossia pezzetti di ossa o di tessuti vari che non hanno più alcuna funzione ma che stanno là, innocui, a testimoniare un legame con un passato ormai estinto: la coda del coccige negli umani, il “bacino” fatto di due ossicini nella balena. Non servono a nulla, ma neanche fanno danni.

Torno a riflettere sulle parole di Silverio Lamonica, sinora unica vox in deserto: mi piace ricordare che è stato maestro, perciò ha dovuto dire e ripetere che le regole esistono e si applicano, ha dovuto lavorare per farle apprendere, ha dovuto trovare un modo per farle entrare in testa anche all’alunno meno perspicace; lo immagino con la penna rossa, traccia un due perché l’errore ci sta, ma non caccia l’alunno dalla classe né gli fa fare il giro dei corridoi con le orecchie d’asino.