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Come eravamo. Le parolacce

di Silverio Guarino
Divieto di parolaccia.1 [1]

 

Lo “sdoganamento” del turpiloquio e la compiacenza nel pronunciare le cosiddette “parolacce” in pubblico, così come avviene anche nella TV di stato (e mi dispiace proprio che sia la trasmissione “Made in SUD” e non “Made in NORD” ad essere la sede preferita del turpiloquio in dialetto napoletano), ha riportato alla mia memoria il tempo della nostra adolescenza-gioventù, quando ci eravamo inventati dei sinonimi al posto delle famigerate anatomie “vietate”.

Eravamo io e mia sorella Luisa, Sandro Russo, Franco Zecca e sua sorella Lia con il cugino Fausto Capozzi ad aver coniato nuovi termini sostitutivi di quelli famigerati, che non perdevano però di efficacia, forza e senso.

Suonavano così: Va’ffa’ in “alfa”! Non mi rompere le “zeta”! Non romperci l’”x”! Che bella “y”! Mi stai sulle “zeta”! Che testa di “x”! Che “x” vuoi? Fatti gli “x” tuoi! E ‘sti “x”!? Però… che omega (ω)! E così via.

Tutti a ridere a crepapelle da farsi venire le lacrime agli occhi, contagiando con questo linguaggio “oratoriano” i nostri nuovi amici estivi che di volta in volta arricchivano la nostra compagnia. Tutti, ben volentieri, si adeguavano ai termini “occultati”.

E così, per tante estati, coinvolgevamo parenti amici e conoscenti in questo turpiloquio virtuale. E non ci sbagliavamo mai.

Unica eccezione tollerata era il classico ed irripetibile ’nculo a Ppaone’! (tipica espressione formiana del tempo!) che pronunciava Franco, quando, saltando dalla sedia mentre giocavamo a tressette a perdere (il “traversone”), gli entravano troppi carichi tra le carte napoletane.

Una eccezione che confermava le regole che urbanamente e civilmente ci eravamo dati.