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La parabola di Veruccio. La bella donna (1)

di Pasquale Scarpati

 

Molti hanno paragonato la bellezza della nostra isola a quella del corpo di una bella donna.
La sua forma allungata sul mare, le sue cale, le colline e i colori non potevano suggerire diversamente all’immaginario dei poeti e scrittori nostrani.

Dall’alto della Guardia si può godere di Ponza in tutta la sua lunghezza e larghezza, in tutte le sue rotondità di terra e di mare, in tutti i suoi colori che il sole si diverte a cambiare mentre cammina per il cielo.

Ponza dall'alto. Versante Le Forna [1]

Forse, proprio questo colpo d’occhio che la raccoglie tutta, mi ha spinto, un giorno, a riflettere sulla sua fragilità.
E da lassù, non pensavo solo alle sue coste e le sue spiagge, che pure sono in continua evoluzione sotto i colpi degli agenti atmosferici, ma a tutto il suo territorio che non riceve più le cure e le attenzioni di una volta.

Il fatto è, pensavo, che la fragilità non caratterizza solo l’aspetto fisico della nostra isola, ma anche quello umano. La debolezza del tessuto sociale, dovuta all’esodo, ma anche alla rapina economica che vede persone arricchirsi col lavoro estivo sull’isola e spendere per il resto dell’anno altrove, non consente di distinguere nemmeno ciò che è utile da ciò che è rovinoso.

Così può imperversare il cemento che vede molti isolani convinti sostenitori di edificazioni ad oltranza.
Una maggiore offerta di alloggi, può offrire una maggiore ricettività, come se fossero le case ad attirare i turisti.

Da lassù, accanto all’edificio diroccato che era stato il Semaforo, mi sembrava di divagare troppo e, mentre scuotevo il capo, fui affiancato da Veruccio, il saggio contadino ponzese che era salito a fare l’erba per i conigli.

Semaforo di Monte Guardia [2]

Messo a parte dei miei pensieri, Veruccio sorrise ed iniziò quello che mi sembrava un racconto.

“Il Creatore, un giorno, creò una donna bellissima, seducente, dal corpo formoso, voluttuoso e dagli occhi azzurri, cristallini. Chiunque la guardasse se ne innamorava. Se ne stava distesa supina, beatamente crogiolandosi ai raggi dell’Astro che domina nel cielo, il quale, innamoratissimo, non si stancava mai di accarezzarla e di baciarla.
Era bella, ma aveva il corpo fragile.
Di molte cure aveva bisogno e i suoi figli per secoli avevano costruito parracine, anche nei luoghi più impervi, avevano zappato e piantato alberi e colture in grado di trattenere il terreno, per evitare il più possibile di perderne pezzi.
Poi molti se ne erano andati disperdendosi per il mondo e la bella donna, non più curata, aveva incominciato a soffrire.
Anzi, in alcuni momenti, c’era stato addirittura un accanimento tale contro il suo corpo, che si temeva si sarebbe spezzata in due.
Quale cura adottare?

Si era pensato che per evitare l’abbandono totale, fosse utile ricorrere alla medicina composta da una mistura di sabbia e calcare: il cemento.
Questa cura, fatta su di lei, per la verità aveva dei risvolti anche per i suoi figli che, divenuti possessori di un bene suscettibile di profitto, affermavano di potersi dedicare a lei con un nuovo amore e una maggiore energia.

Come tutte le medicine, anche il cemento, se assunto in piccole dosi, non ha effetti drasticamente negativi. Poco cemento calato insieme al verde, può anche apportare migliorìe estetiche ed economiche; ma quando se ne inietta in dosi massicce e senza alcuna protezione, diviene altamente tossico.

Purtroppo, i figli della bella donna, totalmente distratti da un luccichio che diveniva sempre più intenso quanto più la tossina penetrava nel corpo, non si seppero regolare e finì che quel bel corpo si disintegrò con tutti quelli che se ne erano finti custodi”

Stavo per dire a Veruccio che questo tragico finale escatologico forse era un po’ esagerato, quando alzando una mano mi indicò del fumo che si stava innalzando dietro il monte Pagliaro, seguito immediatamente da un bagliore che non faceva presagire niente di buono.
Alberi e vigneti scomparvero nel fumo e nelle fiamme accompagnati da alte grida e dal volo impazzito degli uccelli atterriti. La fiamma gareggiava con il tempo e in breve non ci furono che sterpi fumanti e tronchi nudi.

Sottili fili di fumo nero si levavano verso il cielo come malinconici annunci di tristi presagi o come vana preghiera di chi ha perso tutto, anche la dignità.

Poi scese un triste silenzio, funereo. Non cinguettìo di uccelli festanti, non voci umane, non fronde agitate dalla brezza.

Anche tra me e Veruccio scese un malinconico, o, come si diceva una volta, melanconico, silenzio. Nessuno dei due guardava l’altro. Lo sguardo, prima atterrito, non ebbe più il coraggio di alzarsi, ma rimase rivolto verso terra. Io strappavo, nervosamente, fili d’erba avvizzita, Veruccio nervosamente girava e rigirava le mani.

Incendio-del-26-Agosto-2007 [3]

Ponza. L’incendio del 26 agosto 2007

 

[La bella donna (1) – Continua]