Attualità

Sulla grammatica ponzese

di Alessandro Romano (Sandro)
Grammatica

 

La vera e propria “zuffa culturale” che ci stiamo godendo in questi giorni sulle pagine di Ponza Racconta, non fa altro che del bene alla nostra identità isolana, assolvendo egregiamente anche in questa delicata materia il fine che si propone il sito.

Come è emerso qua e là nelle varie posizioni degli articolisti, il problema del ponzese scritto, in passato, è stato già ampiamente trattato dai maggiori cultori delle nostre tradizioni isolane, ma senza ottenere né una condivisione, né, tantomeno, una qualche obiezione.
Nel perfetto stile che ci distingue, le autorevoli ed articolate argomentazioni sulla nostra lingua sono state considerate come dei punti di vista del tutto soggettivi e, come tali, trattati con indifferenza. Insomma non è scaturito quel dibattito costruttivo che invece adesso qua è nato, ed ognuno ha continuato a scrivere come meglio crede.

In realtà stiamo di fronte ad una materia piuttosto complessa che non si esaurisce dettando d’imperio regole basate sul “così fan tutti” o sull’“occorre scrivere in questo modo perché così scrive chi ha scritto di più”. Con tali presupposti si rischierebbe che il Giggino della situazione, avendo alle spalle tre anni di scritti, diventi il Dante Alighieri della lingua ponzese. E non mi sembra sia proprio il caso.

Il ponzese, così come molte altre lingue, è una “lingua figlia” (la protolingua è il napoletano) solo parlata. Tra l’altro varia da quartiere a quartiere, seguendo una regola non scritta che la fa dipendere (sociolinguistica) dalla provenienza etnica e familiare, dalla condizione sociale e culturale, addirittura dal genere (le donne usano un linguaggio più mediato), spesso articolando un lessico esclusivamente isolano.
E’ facile distinguere una persona di Le Forna da una del Porto, degli Scotti o dei Conti. Noi lo sentiamo. È la meraviglia di una lingua libera ed “anarchica” che si adegua a chi la usa e, spesso, si adatta colorendosi a secondo del tipo di discorso. Scrivere una lingua con tali caratteristiche è veramente un’impresa e diventa praticamente impossibile imporre una grammatica precisa.

Tuttavia, raccogliendo le argomentazioni di Carmine Pagano, Franco Schiano e Sandro Russo, quale potrebbe essere una soluzione per mettere almeno un po’ d’ordine?

Gli antropologi linguistici che si sono impegnati per secoli ad interpretare la lingua di molte tribù americane ed africane, danno una traccia che potrebbe aiutarci.
Lasciando le regole grammaticali all’italiano, occorre scrivere fonemi in grado di riprodurre più fedelmente possibile il suono della lingua parlata.

E qua nasce un primo problema strettamente collegato a quanto su accennato. Un esempio: a Le Forna la parola “comare” (cummò) si pronuncia con una “a” molto chiusa (quasi una “o”) preceduta da una doppia “m”. Scrivendo come si pronuncia a Le Forna, si rischia che a Ponza significhi ‘comò’.
L’esempio (sicuramente) poco felice serve solo a dare un’idea delle innumerevoli possibili varianti e dell’impossibilità di dettare delle regole precise. Con questo è chiaro che il problema maggiore è proprio sulle tronche e sulle vocali anche se non pronunciate.

Ma a tal proposito diceva il Prof. Giuseppe Cicala dell’Università Federico II di Napoli che bisogna adottare un “algoritmo fonetico” per costruire le parole, non dettare regole grammaticali. In pratica, il sistema da adottare per sapere se mettercela o meno la vocale al termine di una parola, è ascoltare attentamente la parola: se la vocale c’è, sicuramente si sente, anche se è brevissima o solo sfiorata, e bisogna mettercela.
Un esempio è la parola mare: la “e” finale si mette perché si sente, anche se pochissimo, non perché in diletto è muta e non si legge. Inoltre occorre fare attenzione perché le parole tronche spesso rubano un pizzico di vocale alla parola che la seguono e, pertanto, la si accenta per far capire che quella è una “liaison” (legamento) alla parola successiva e non è una semplice tronca. In pratica le parole totalmente tronche sarebbero pochissime.

Queste mie semplici ed opinabilissime considerazioni, insieme a quelle di ponzesi illustri e di esperti della materia potrebbero essere l’oggetto di un bellissimo ed interessantissimo convegno sulla lingua ponzese. Può darsi che in quella sede si riesca tutti insieme in qualche modo a riconoscere ufficialmente dei condivisi orientamenti grammaticali.

Tuo marito

2 Comments

2 Comments

  1. Carmine

    19 Novembre 2015 at 17:21

    Caro Sandro, se il ponzese è, come tu lo definisci, una lingua figlia del napoletano, perché non attenersi al modo di scriverlo come nelle grandi opere napoletane tramandateci? Certo, con le opportune variazioni dettate dai cambiamenti fonetici di alcuni articoli o altre piccole varianti. D’altronde anche il napoletano che si parla a Pozzuoli è notevolmente differente da quello di Portici o che si parla a Torre del Greco, eppure si scrive alla stessa maniera. Il mio iniziale intervento è scaturito dalla quasi illegibilità degli recenti scritti in dialetto, dovuti alla grandissima quantità di vocaboli tronchi, e mi è venuto da pensare che fosse un codice per pochi eletti che riescono ad interpretarlo, ma se fosse capitato nelle mani di un non ponzese cosa avrebbe capito?

  2. Alessandro Romano

    19 Novembre 2015 at 17:36

    Caro Carmine, non vorrei ripetermi in merito alle regole per le quali ti rimando al mio articoletto (nemmeno il napoletano le ha), ma vorrei farti notare che, essendo la nostra una lingua, per essere capita deve essere letta da chi conosce la lingua. Le persone che “non hanno vissuto il ponzese” non potranno mai capire al volo quello che ci si sforza di scrivere. Il ponzese, così come tutte le lingue, deve essere anche pensato per essere compreso in tutte le sue sfumature. A quel punto il modo di scriverlo è più un aspetto estetico che di espressione. Tuttavia ciò non toglie che delle regole ci debbano essere, ma, per essere autorevoli, devono essere necessariamente condivise… anche dai Giggino…

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