Dialetto

E andavamo tutti alla Caletta. (1) e (2)

di Dante Taddia
Caletta e vapori

 

Pubblichiamo due racconti di Dante Taddia strettamente collegati tra loro, che fanno parte della raccolta “E andavamo tutti alla Caletta”, in cui l’autore, romano, geologo, musicista, scrittore e poeta, ha voluto riunire le sue prime esperienze vissute a Ponza soprattutto negli anni Sessanta. Infatti Dante ha messo piede per la prima volta sull’isola nel 1963: è stato amore a prima vista e da allora non se ne è staccato mai più, almeno dal punto affettivo, mentre invece fisicamente diciamo solo che… è un autentico giramondo: un Ulisse a largo raggio che prima o poi ritorna alla ‘sua’ isoletta, unico luogo in cui si sente davvero se stesso.

L'arrivo del piroscafo


1. L’arrivo d’u vapore 

Il fascino dell’arrivo della nave da Formia era di un gusto retrò anche in quegli anni dato che il glorioso Mergellina, la nave che assicurava i collegamenti con Formia, con la sua poppa arrotondata a becco di papera e la prua dritta sembrava un Titanic in sedicesimo.

Gli ottoni lucidissimi della scala del primo ponte, gli scalini in legno dogato e a reticolato in legno vissuto, il tappetino di corda bianca intrecciata, i marinai in bell’uniforme e il cameriere di bordo conferivano a quell’arrivo il gusto degli anni Trenta, quando la nave era nel suo pieno splendore, senza per niente sminuirne, anzi accentuandone, il sapore del buon tempo andato.

L’allora “filarino” estivo, a titolo di cronaca quel filarino è mia moglie da oltre quarant’anni, mi faceva uscire di testa perché non c’era giorno che la fugace passeggiatina pomeridiana, il cui inizio era stabilito con molta calma, quando il sole non scottava troppo e la calura era ormai stemperata dal venticello di ponente che arruffava Chiaia di Luna sì, ma faceva diventare uno specchio di lacca Sant’Antonio e Giancos, insomma non prima delle 19, non si concludesse col rito di andare a vedere l’arrivo della nave e della posta.
“Andiamo a vedere chi arriva e poi prendiamo la posta”.
Detto così, la prima volta mi era sembrata una vera cortesia partecipare, pensando a qualche amico o parente atteso che venisse dalla terra ferma.
“Chi aspetti?”.
“Nessuno”.
“E allora che facciamo?”.
“E’ per vedere, vedere chi arriva… No, nessuno in particolare ma sai non si sa mai, c’è sempre un arrivo a sorpresa a Ponza” – mi diceva quella ragazza.
E restavamo rigorosamente dietro alla transenna mobile messa dal personale di terra della SPAN (Società Partenopea di Navigazione) come allora si chiamava, per poter permettere le operazioni di sbarco in tutta tranquillità.
“Ah eccolo…”.
“Chi è arrivato?” – e guardavo verso la scaletta della nave.
“Non lì, qua, Vincenzo, il postino”.

Ponza. La Piazza

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2. L’arrivo della posta. Vincenzo, il postino

La posta arrivava a Ponza la sera, da Formia, con la nave.
Quando ancora il turismo non era così prepotente, e per tale parola intendo nella sua più vasta e completa accezione di prepotente, ebbene la nave arrivava tre volte alla settimana, e di queste una faceva il giro largo, passava da Santo Stefano e Ventotene prima di arrivare a Ponza.
Ci si imbarcava alle 15 a Formia e dopo “solo” cinque ore e mezzo di mare, passando per Ventotene, si arrivava a Ponza.
L’arrivo era sempre una festa per tutti e anche se non doveva arrivare nessuno ci si trovava alla banchina perché arrivava ‘u vapore e poi arrivava la posta.

Nella mia mentalità cartesiana non si era ancora fatta strada la forma mentale di umanità, ponzese, per la quale ‘u vapore e quanto in esso trasportato e portato nell’isola faceva parte integrante della vita stessa degli isolani. Figurarsi poi la posta che cosa poteva rappresentare.

L’arrivo d’u vapore era l’essenza della posta, e Vincenzo Capone, con la sua borsa a tracolla, era pronto a ricevere il sacco della posta e ad aprire il corteo per la distribuzione.
Un corteo fatto da quanti erano venuti a prendere gli amici, i parenti, i familiari, ma soprattutto di coloro che andavano a prendere la posta.

Non si aspettava infatti la distribuzione, che sarebbe avvenuta solo la mattina successiva: la sospirata lettera doveva essere vista subito, fresca arrivata e Vincenzo accontentava tutti perché sapeva cosa era una “lettera”, e cosa una “carta”.
Quell’uomo col suo prezioso sacco entrava nell’antro del Comune e, quasi come un Babbo Natale con il sacco dei doni, sarebbe emerso di lì a poco per distribuirli.

Il palazzo del Comune di Ponza, dove allora e fino a non molti anni fa si trovava anche l’Ufficio postale, ha infatti una balcone che si estende lungo tutta la facciata e affaccia sulla piazzetta sottostante, che ha assistito a tutti gli avvenimenti più importanti della storia dell’isola.
Lì si celebrava ogni sera il rito della posta.
La piccola folla si accalcava, chiacchierava, parlottava.
Chi sapeva non ci faceva caso, chi non sapeva guardava con fare interrogativo. Il forestiero, come era allora chiamato (solo negli anni successivi sarebbe diventato il turista) che aveva già assistito una volta a quella specie di rito, era tornato per vedere ancora, anche se non aspettava nulla.

Il legame che univa il ponzese che andava a vedere i turisti che arrivavano con la nave con quello del turista che andava a vedere i ponzesi che aspettavano la posta, era quello della sorpresa, del vedere cosa e chi c’era di nuovo.

Il brusio cresceva, e tra un “Ciao Silve’, …Tato’ statte bbuone,… figlieme m’ha scritte,…. Concetti’ ma è l’atu iere ch‘u figlie vuoste v’ha mannate ‘u pacche… e che aspettate ancora?”.
Ma si aspettava. Si aspettava perché… non si sa mai.
Si aspettava per fare compagnia agli altri, si aspettava perché il gusto della curiosità lo richiedeva e si voleva sapere per primi cosa c’era di nuovo per gli altri.
Si aspettava perché l’attesa, per i ponzesi, è il loro stesso vivere.
Lo hanno sempre fatto.

Hanno aspettato e sono arrivati i pirati a depredarli, hanno aspettato e sono arrivati i monaci a consolarli, hanno aspettato e sono arrivati i Borbone a governarli, hanno aspettato che i Borbone se ne andassero per non essere da loro governati, hanno aspettato che arrivassero gli alleati per essere liberati, hanno aspettato che arrivassero i turisti per non essere più liberi: li hanno aspettati per vendere il loro stupendo mare, hanno aspettato che se ne andassero per riappropriarsi del loro stupendo mare, hanno aspettato che ci si ricordi di loro l’inverno, dei loro disagi, del loro isolamento, della mancanza di assistenza sanitaria, di acqua, di un porto sicuro per tutte le stagioni… e stanno ancora aspettando.

Forse sperano che arrivi una lettera, anzi, ’na carta.
Il volume del brusio diventa sempre più alto per poi tacere tutt’a un tratto. Sul balcone emerge lui, Vincenzo.

La luce dei lampioni illumina abbastanza bene le facce degli astanti ma Vincenzo le conosce tutte quelle facce, le guarda una ad una come fosse la prima volta, tiene in mano un pacco di lettere, le osserva ancora, le scruta quasi e poi, con l’indice puntato: “Tu, tu, tu, tu, e tu, iatevenne, a’ casa, nun tenite niente…”. “Silve’, è ppe’ te”. E la lettera con un bel lancio partiva dal balcone per atterrare di taglio con un volo preciso nella piazza sottostante
“Conce’, è fìgliete…”, e partiva la lettera nello stesso modo della precedente e di tutte le altre.
“Silve’, è fràtete”.
“Luise’, è ppe’ tte”.

Rispettava così un po’ di privacy, anche se in quegli anni quella parola e quel concetto non si applicavano ancora, e che era per un certo verso riservata solo a qualche ragazza, che aspettando la lettera dell’innamorato non voleva attendere neanche un attimo in più per leggere del suo bene lontano, ma allo stesso tempo non voleva farlo sapere agli altri
“Genna’, è arrivate ‘u mandate, ’a carta”.
“Tato’, è solo ‘nu cataloghe”.
Prendeva fiato Vincenzo, tra uno sbuffo di fumo e l’altro, e ricominciava: “Olimpia, Olimpia. Oli’, è comm’è ‘stu fatte, stai sempre ccà e quanne c’è ‘a posta ppé te, te ne ssi’ gghiute!? Olimpia, ’a posta… E va’ bbuo’: n’cia porto a’ casa, dimane”.

E così nel giro di pochi attimi il pacco delle lettere veniva subito evaso.
“Dimane ‘a matine, ‘u rieste, stateve bbuone”, concludeva secco Vincenzo.
E il suo fare deciso non ammetteva deroghe né repliche.

Il resto della posta ero solo per l’indomani mattina, ché l’indomani sera sarebbe nuovamente apparso sul balcone per la distribuzione, ripetendo quel cerimoniale così caro e particolare.

***

Vincenzo Capone al cimitero lo vanno a trovare un po’ tutti.
Quelli che lo hanno conosciuto ci vanno per gratitudine, per i momenti che è stato capace di regalare a ognuno, belli o brutti ma momenti di vita vera, ricca di umanità, fatta di amicizia, di affetto, anche se qualche volta s’appiccecavene (litigavano), di rapporto diretto fra persone, di isolani, di ponzesi soprattutto, e quelli che non lo hanno conosciuto perché ne hanno sentito parlare.

Anche io vado a trovarlo “n’coppa ‘a Madonna” per dirgli quel grazie che non ho avuto modo di esprimere quando era fra noi: grazie per tutto il lavoro che ogni sera gli ho dato con le lettere d’amore scritte al mio filarino estivo e che lui con solerzia e discrezione ha sempre recapitato.

 

[E andavamo tutti alla Caletta. (1) e (2)Continua]

1 Comment

1 Comment

  1. silverio lamonica1

    18 Novembre 2015 at 23:48

    Vincenzo Capone, l’indimenticabile postino, ne raccontava di aneddoti. Un giorno recapitò ad una vecchietta, agli “Scotti di Sopra”, una lettera tassata; per cui – prima di consegnargliela – le chiese 100 lire, l’onere previsto. La nonnina lo supplicò: “Vicié, famme scarzià!…” (fammi risparmiare qualcosa!).
    Erano ben altri tempi!

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