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Curiosità a margine, sui legumi.

di Rosanna ConteimagesMFWCC6AN [1]

 

Quanta fatica hanno dovuto affrontare le generazioni che, sulla nostra isola, ci hanno preceduto per produrre un cibo sano, gustoso e nutriente come i legumi!

E’ questa la spontanea riflessione sollecitata dagli articoli di Sandro: Piccola antologia dei legumi”.

In maniera critica mi son detta che con l’avanzare dell’età stavo somigliando sempre più a mia madre che aveva impresso nell’anima il valore della laboriosità, ma sempre accompagnato dal senso della fatica .

Certo, per le generazioni cresciute prima dell’arrivo delle macchine moderne e delle conseguenti comodità, che ne hanno alleggerito il lavoro accorciandone anche i tempi, era naturale confrontare l’ieri all’oggi sul quantitativo di fatica risparmiato, perché avevano vissuto il cambiamento in prima persona. Ma io?

Beh, una parte di quel mondo, a cui ho partecipato con modalità e intensità diverse e che conservo anche nella forma del racconto, mi appartiene come ricordo più o meno vago, ma comunque caro, perché era il mondo in cui hanno vissuto i miei genitori, zii, nonni. E’, quindi, forse l’affetto che mi lega a loro, a proiettarmi, appena mi capita l’occasione, in un contesto in cui possa ritrovarli.

E’ comunque giusto che il ricordo della fatica per produrre i legumi appartenga alla memoria collettiva ponzese, ma bisogna pur dire che questa memoria, purtroppo, va scomparendo.

Sono perciò preziosi e bellissimi gli articoli come quello di Salvatore Di Monaco (leggi qui [2]) che ci descrive l’operazione della battitura o quello di Enzo Di Fazio (leggi qui [3]) che ci racconta il passaggio di competenze nell’uso del muillo tra le generazioni.

Alle informazioni che ci danno si può aggiungere la seconda fase del lavoro sull’aia, quella della cernita, che pure merita attenzione. Nel ricordo di Giulia, cugina acquisita cresciuta sui Conti, questa operazione ha lasciato immagini indelebili.

Le vedo gli occhi brillare quando descrive le giornate della cernita. In ogni aia dei Conti c’erano le donne, i capelli contenuti nei fazzoletti, con le loro bagnarole colme dei legumi scognati, un telo pulito steso per terra, in attesa delle refole di vento necessarie all’operazione.

Si prendeva con le mani o con un recipiente una piccola parte del contenuto della bagnarola e lo si lasciva cadere lentamente sul telo: il vento portava via la pula ed il legume più pesante si poggiava sul telo.

E quando il vento era troppo debole, si sentivano le voci –Vient’, vient’!

Le donne dei Conti non avevano a disposizione quella camera del vento che è il tunnel di Chiaia di Luna, ricordato da Silverio Lamonica nel suo commento (leggi qui [4]), e dovevano solo sperare che ci fosse un vento dalla forza sufficiente a mandar via la pula senza trascinare i legumi.

Era un lavoro meno faticoso della scognatura, ma più delicato che richiedeva pazienza.

Dopo questa cernita grossolana, c’era quella fatta con i setacci e ce n’erano diversi a seconda del tipo di legume da setacciare.

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Anche lei finisce il discorso esclamando: Quant’era faticoso fare i legumi!

Già! Ed è da tempo immemorabile che lenticchie, fave, cicerchie, piselli e veccia (culetuòtene) alimentano l’uomo!

Quando era ancora cacciatore-raccoglitore ne mangiava raccogliendo i baccelli a livello selvatico, poi, appena ebbe scoperto le tecniche dell’agricoltura – e siamo, qui da noi, in Italia e in Europa, a circa 8000 anni fa – le coltivò insieme al farro e all’orzo.

Giusto per avere una dimensione temporale, risalgono a circa 19000 anni fa i primi resti di leguminose selvatiche consumate dall’uomo nel paleolitico ritrovati in Israele e a 15000-13000 anni fa quelli ritrovati nella Grotta di Franchthi, in Grecia.

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Risalgono, invece, a 8000 anni fa, proprio agli inizi della rivoluzione agricola in Italia, i semi di leguminose coltivate (lenticchie e cicerchie) ritrovati nel sito della Grotta dell’Uzzo a Trapani.

Grotta dell'Uzzo [7]

Da allora le leguminose sono state compagne dell’uomo fino oggi, ma non sempre e dappertutto allo stesso modo.

Le preferenze o meno nel consumo delle diverse varietà hanno spesso rispecchiato, le differenze sociali e culturali che caratterizzavano i gruppi umani che le consumavano.

Basti pensare che i nomi di alcune famiglie nobili dell’antica Roma sono direttamente legati ad un legume: Lentula (lenticchie), Pisone (piselli), Fabia (fave).
Certamente questi tre tipi di legumi erano considerati importanti e degni dei ceti elevati, al contrario del fagiolo che per i romani era un alimento vile, utilizzabile solo dai ceti più bassi, rozzi e plebei. E non troviamo nessuna famiglia che faccia derivare il suo nome dai fagioli.

Può sembrare strano a noi, oggi, che riteniamo questo legume fra i più apprezzati, ma non stiamo parlando degli stessi fagioli.

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Il solo fagiolo conosciuto allora nella zona del Mediterraneo e dell’Europa era il fagiolo con l’occhio, il dolico, piccolo e con una macchia nera (l’occhio) nel punto in cui si era staccato dal picciolo. Si chiamava anche il fagiolo d’Egitto perché da lì era giunto in Etruria da cui si diffuse in tutta Italia..

Per avere i fagioli che conosciamo oggi, bisognerà aspettare la scoperta dell’America – poco più di 500 anni fa- quando sono arrivati i grandi borlotti dal Messico e dal Perù che hanno soppiantato il nostro dolico.

Presso gli egiziani, invece, il fagiolo con l’occhio era consumato dai sacerdoti di Iside durante i riti in onore della dea e nelle cerimonie funebri, mentre agli schiavi venivano dati i ceci per accumulare l’energia necessaria ad affrontare i pesanti lavori a cui erano sottoposti ( la parola cece, dal greco kikus, significa forza). L’hummus, la crema di ceci, era ricca di proteine e se ne faceva largo uso in Siria, Libano e Grecia, oltre che in Egitto.

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Nel mondo antico, anche le lenticchie dovevano godere di una buona reputazione energetica.

Circa quattro millenni fa, il nipote di Abramo, Esaù, vendette la sua primogenitura al gemello Giacobbe per un piatto di lenticchie rinunciando ad essere il capostipite degli ebrei, il popolo eletto.

Ancora oggi si dice si è venduto per un piatto di lenticchie se si vuole criticare una persona che si è venduta per poco, ma forse Esaù scelse le lenticchie perché, in quel momento- e veniva da una estenuante battuta di caccia- era così stanco e debilitato da ritenere le lenticchie più utili alla sua sopravvivenza che non la primogenitura che avrebbe perso comunque se non si fosse ripreso.

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Si trattava di lenticchie rosse, quelle coltivate anche in Egitto da dove, circa 2500 anni fa, venivano esportate verso la Grecia e Roma e il fatto che fossero consumate in diverso modo – in zuppa, marinate con l’aceto o anche, ridotte in farina, come pane o dolce – ci suggerisce che dovevano essere molto apprezzate. A Roma ne dovevano arrivare a tonnellate se, la colonna egizia di piazza San Pietro che l’imperatore Caligola volle a Roma, viaggiò immersa in un carico di lenticchie che la protessero.

I legumi in genere sono stati considerati anche il cibo che consentiva il passaggio dal vecchio al nuovo, dal passato al presente, nonché il ricongiungimento con i morti. Abbiamo già detto dei sacerdoti egiziani, ma anche i greci e i romani se ne cibavano durante i riti propiziatori e le cerimonie funebri, e ancora fino a pochi decenni fa, in occasione del 2 novembre, nelle tradizioni contadine italiane i defunti venivano commemorati con preghiere e con zuppe di legumi.

Tra i legumi, le fave hanno predominato nella funzione di legame con l’al di là e già 4500 anni fa le troviamo nelle tombe egiziane come alimento che accompagna i defunti.

Fave [11]

E’ probabile che abbiano assunto questa simbologia perché il loro stelo privo di nodi o piegature, penetrando direttamente nel sottosuolo, dava l’immagine di un rapporto diretto col regno dei morti; inoltre, le macchie nere presenti sui fiori erano facilmente assimilate alle anime dei defunti. Ma non è da escludere che le morti improvvise dopo aver mangiato le fave, che noi oggi sappiamo dovute al favismo (1), facendole considerare pericolose, ne abbia favorito il collegamento col mondo dei morti.

Ritenute sede di esseri soprannaturali in grado di influire sull’uomo, i pitagorici (2)– e siamo a circa 2500 anni fa – le consideravano alimento contaminante come gli afrodisiaci o il cuore degli animali, anch’esso vietato all’alimentazione umana. Questa credenza superstiziosa, deve avere trovato la sua origine nella difficoltà di digerire le fave che facilmente porta al torpore e ad un appannamento delle facoltà razionali, ostacolo all’innalzamento della natura umana verso quella divina.

Simbolo di passaggio dal vecchio al nuovo, le lenticchie nell’antica Roma venivano regalate in un sacchetto con funzione augurale di prosperità e, ancora oggi, in tutti gli strati sociali, al cenone di Capodanno – passaggio dal vecchio al nuovo anno – è sempre presente il piatto di lenticchie con cotechino.

L’abbinamento con l’idea della prosperità e della ricchezza può essere dovuta alla forma di questo legume che, tondeggiante ed appiattita, richiama le monete, ma probabilmente anche alla sua capacità nutritiva tanto che, specie per i poveri, ha sostituito brillantemente la carne fino a pochi decenni fa.

lenticchia [12]

Ultima curiosità (e non perché siano finite…)

La parola polenta deriva da puls, la farina che si faceva presso i romani con le fave o col farro.
La puls ebbe una funzione fondamentale nell’alimentazione quotidiana fino alla diffusione generalizzata dell’uso del pane agli inizi del II secolo a.C, cioè 2200 anni fa.

Note

(1) – Il ‘favismo’ consiste in disturbi che possono essere gravi, o anche mortali, scatenati dall’ingestione di fave, ma anche dal semplice contatto o odore, o dal passaggio attraverso un campo di fave. Si tratta di un deficit enzimatico – carenza di glucosio-6-fosfato-deidrogenasi – che determina sofferenza e poi rottura dei globuli rossi (emolisi) con una reazione piuttosto rapida: dolori addominali, urine scure e forte pallore. Oltre che dalle fave, nei soggetti con il deficit, i sintomi possono essere scatenati da farmaci (come l’aspirina e il chinino). Leggi anche qui [13].

(2) – Erano filosofi appartenenti alla stessa scuola fondata da Pitagora nel 530 a.C. che si interessavano di matematica, astronomia, musica e filosofia, ma erano anche una setta religiosa a carattere misterico.