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L’isola del Signore delle Mosche

di Silverio Tomeo
Signore delle mosche [1]

 

“L’uomo produce il male come le api producono il miele”
(William Golding)

 

Cosa c’è di meglio di un’isola? Un’isola disabitata! Potrebbe essere questa una delle risposte possibili, magari quella più sarcastica. L’isola deserta vista anche come metafora di un proprio spazio psichico non invaso dal chiacchiericcio e non costretto al dispendio per transfert negativo con gli altri.
Nel romanzo cult di William Golding, Il signore delle mosche (scritto nel 1952 e pubblicato nel 1954), un’isola deserta nel vasto Pacifico è come un laboratorio in vitro per indagare come si produce e riproduce il male dalla stessa natura umana e dentro la dinamica collettiva.

Nelle “Isole del cinema” già se ne è scritto su questo sito (leggi qui [2]).

L’autore, inglese, premio Nobel per la letteratura, era stato nella Marina Militare, partecipando all’affondamento della corazzata tedesca Bismark e poi allo sbarco in Normandia. Attratto in gioventù dall’antroposofia di Rudolf Steiner, a sfondo spiritualista e mistico. Sposato con una militante comunista dei comitati di sostegno della causa repubblicana spagnola. Dopo l’esperienza diretta nella seconda guerra mondiale insegnò e maturò una sua visione pessimistica della natura umana.
Il titolo del romanzo Lord of the Files venne deciso editorialmente da T. S. Eliot, e allude a una delle configurazioni del male, ovvero Satana, nella fattispecie di Beelzebub, che significa letteralmente “Signore delle Mosche”.

Di questo romanzo, un perfetto congegno narrativo, come è solo per alcuni capolavori, ci fu una prima trasposizione cinematografica nel 1963 a cura di Peter Brook, famoso regista teatrale, allievo del mistico Ivanovicič Gurdjieff.
In versione originale:
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Nel 1990 un regista americano ne fece un remake, alquanto edulcorato:

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Durante un conflitto planetario nucleare, da un aereo britannico caduto nel Pacifico si salva un gruppo di ragazzini. Si organizzano in una vita sociale di sopravvivenza su un’isola deserta, ma in breve scoppia una contesa per la leadership e si avverte come la presenza del male.
Regressione, aggressività, violenza, sino all’uccisione, si producono in una dialettica claustrofobica, senza la presenza di adulti, se non nel soccorso finale che salverà il salvabile.
Si avverte come una temibile presenza invisibile sull’isola, che i ragazzini chiamano la Bestia, frutto in realtà dei loro stessi timori. Gli si offre, per placarla, la testa di un maiale selvatico, infissa su un palo. Presto un nugolo di mosche la coprirà. Simon, fragile e suggestionabile, crede di sentir parlare il Signore delle Mosche attraverso la testa di maiale.
Gli premonisce un gioco mortale: “Su quest’isola ci divertiremo”; “Lo sapevi, no?…che io sono una parte di te”; “Non c’è nessuno che possa darti aiuto. Solo io. E io sono la Bestia”.

Sulla presenza del male nella storia e nei conflitti mi permetto di rimandare a una mia recensione [4] del libro “L’umiltà del male” del mio amico Franco Cassano (in fondo all’articolo anche in file .pdf).

Ma nell’isola del Signore delle Mosche non siamo solo dentro un apologo pedagogico della dimensione, storica o metafisica che sia, della presenza del male nella dialettica relazionale ed esistenziale dell’umano.
Siamo anche di fronte a un tema che vanta una lunga tradizione nel pensiero filosofico occidentale: quello della natura umana. Tra natura e cultura, quanto c’è di innato? E quanto c’è di culturalmente ed antropologicamente costruito?
Nel 1971, ad esempio, in un dibattito nella televisione olandese, l’intellettuale radical americano più famoso ne discuteva con un noto filosofo e storico francese. Quel dialogo è stato pubblicato in Della natura umana. Invariante biologico e potere politico di Noam Chomsky e Michel Foucault (DeriveApprodi, 2005), diventato nell’edizione del 2013 La natura umana. Giustizia contro potere.

La visione di William Golding appare insieme realistica e profondamente pessimista.
A me questa lettura contribuisce a far preferire ancor più il sogno delle isole deserte, piuttosto che abitate malamente e distruttivamente.
L’ottimismo della volontà di gramsciana memoria potrebbe comunque lasciar immaginare un nuovo inizio, come utopia ragionevole e fuor di metafora, nel caso concreto e presente della nostra mater insula.

il-signore-delle-mosche [5]

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La recensione dell’Autore, sopracitata, in file .pdfLa presenza del male nel conflitto e il narcisismo etico [6]