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A proposito di pane e… contorni (2)

di Pasquale Scarpati

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Per la prima parte dell’articolo, leggi qui  [2]

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Dunque, allorché l’impastatrice, rumorosa, aveva terminato il proprio lavoro, tutto l’impasto veniva raccolto su un tavolo dove era già stata cosparsa abbondante farina.
Con una spatola quadrata, ben affilata, lo si tagliava a pezzi dal peso voluto mentre un’altra persona “l’arrotava”. Componeva, cioè, piccole pagnotte rotonde come quelle che fanno i pizzaioli prima di spianare la pizza.

Esse erano riposte in lunghi cassoni di legno senza coperchio, ma che, posti l’uno sull’altro, chiudevano quello sottostante. Una volta cresciuti si dava loro la forma voluta e si riponevano di nuovo un altri cassoni affinché crescessero di nuovo.
Di norma si confezionavano soltanto i “palatoni” da 1 Kg e le “palatelle” da mezzo chilo. Qualche volta anche “i panielli” rotondi (quelli erano quasi una prerogativa della “Russiella” e di “Bonaria”).

Il pane tirato fuori dal forno [3]

Quando erano di nuovo cresciuti al punto giusto (bisognava stare attenti che non “screscessero”) si ponevano, in fila indiana, su una lunga pala di legno e si infornavano facendoli cadere sul suolo del forno con un leggero ma deciso colpo. Durante l’estate bisognava fare attenzione che non  superassero la lievitazione necessaria; durante l’inverno, invece, bisognava tenere le porte dei locali ben serrate sia per far lievitare in fretta la “pasta” sia per evitare che il vento “l’arricciasse”. In tal caso bisognava ricominciare tutto daccapo.

Il forno era diverso da quelli che normalmente erano in uso: diciamo che per l’epoca era all’avanguardia. Era, innanzitutto, un ‘vapoforno’, un forno cioè che poteva irrorare il pane con il vapore.

Forno a chiusura [4]

In alto campeggiava la scritta “TIBILETTI”. Sul davanti vi erano quattro sportelli con il vetro per verificare la cottura. Pressando sulle maniglie il vetro spariva in alto aprendo così la bocca del forno nella zona voluta. La camera del fuoco era di lato, separata totalmente, con un muro probabilmente refrattario dal piano cottura formato da mattoncini anch’essi refrattari. Pertanto non vi era alcun contatto della legna (o della nafta) con il cibo. La legna venne adoperata soltanto per il rodaggio, poi usualmente vi era un bruciatore che pescava la nafta da un serbatoio. Ma ugualmente si aveva una scorta di legna nel caso in cui “Sigaretta” non giungesse per qualche tifone o tsunami.

Detto per inciso sono convinto che soltanto in tale evenienza Peppe e/o Silverio forse non avrebbero tolto le ancore! Se ci fossero state semplici “code ‘i zéfer’, piccoli tornado, che nei giorni di tempesta si affacciavano verso Zannone, quelli sarebbero partiti lo stesso e, risucchiati in alto, sarebbero piombati direttamente nel porto! Era il tempo in cui essi, dati i pochi collegamenti con la terraferma, avvertivano la necessità di approvvigionare gli isolani e pertanto erano inesauribili ed infaticabili, con il motore e con il vento, nella spola tra la terraferma e l’Isola. Bisognerebbe che anche  di questo si tenesse ben conto!

A tal proposito mi sorge un amletico dubbio: “Il fatto che a Ponza i residenti fossero così numerosi anche durante il periodo invernale non era dovuto, per caso, anche ai pochi se non scarsi collegamenti con la terraferma? Ognuno, infatti, dovendo salvaguardare e/o manutenere la proprietà era costretto a restare sull’Isola per molti giorni. Sicuramente non esistevano i residenti-ghost. Scempiaggini e divagazioni: la calura gioca brutti scherzi!

Torno al nostro discorso.  Nei forni tradizionali, invece, quelli a una sola bocca, si introduceva direttamente la legna oppure si inseriva in essa il bruciatore posto su un fusto pieno di nafta.

Il “palatone”, il signorotto, aveva bisogno, ovviamente, di maggior tempo di cottura. Usciva tronfio e pettoruto, ben cotto e scuro in volto. Sempre “arrabbiato”, spezzandolo o tagliandolo, protestava facendo udire la sua voce: “cric cric” . Non gradiva essere tagliato per cui opponeva fiera resistenza. Ma, una volta che aveva ceduto alla forza dell’uomo mostrava tutta la sua bellezza: alto, tutto sfogliato con tanti buchi grossi come quelli del formaggio groviera. Allora si tuffava volentieri nelle salse e negli intingoli. Nir’ o più chiaro, a detta di molti, era saporito.

Le 'palate' [5]

In verità io preferivo la “palatella”, la signorina, più morbida, dai mille buchetti; per me più appetitosa soprattutto quando, tagliata trasversalmente, era imbottita di salumi (a fettine ‘trasparenti’) o di formaggi (taglio sottile, perché “fanno male”).

Palatelle_in_forno [6]

La sua lavorazione era uguale a quella dei “palatoni”, ma, nel momento in cui stava per essere infornata veniva incisa, la parte superiore, in diagonale da due colpi di lametta. Cosicché quando usciva dal forno, come una donna che indossa un abito con lo spacco, così lei mostrava i due caratteristici spacchi aperti e “ricamati”. Prima di uscire dal forno, inoltre, come ogni donna  che sta per uscire di casa, anche lei “si truccava”. Veniva, infatti, brevemente inondata di vapore: si abbassava una leva e si dava la quantità di vapore voluta. Così sortiva dal forno morbida ed anche lucida; si lasciava accarezzare, in contraltare al “palatone” scuro, robusto e brontolone.

Comunque sia, o “palatone” o “palatella” a me toccava sistemarle nelle ceste ancora caldi anzi bollenti. La lavorazione iniziava verso le sette/otto di sera e si protraeva per tutta la notte: lunga e faticosa, ma anche piacevole, specie durante il periodo estivo. Quando alle 4 del mattino a oriente il cielo diveniva prima bianco e poi roseo, quando il mare cominciava a risplendere di luce diafana, quando si incominciavano ad udire i primi rumori: qualche zoccolo, qualche “bolindro”  [Bolinder: cfr nota (1)] che giungeva dalle Forna; quando l’aria della notte, cupa e pesante, lasciava il posto a quella fresca e leggera del mattino, quando…

Ma lasciando queste considerazioni eteree, ritorno al “pane quotidiano”. Del “palatone” o della “palatella” preferivo “u culurcio”: la parte terminale. Toglievo la mollica che assumeva la forma di cono e nel buco che si era creato infilavo, a seconda delle stagioni, olio e sale, pomodori con o senza condimento, i gustosi “friarielli” (broccoletti o cime di rape), e, a volte, anche ‘a quagliata di nonna Tumm’tella. In definitiva tutto ciò che potesse rendere più morbido il coriaceo pane. Usavo poco, anzi per niente, zucchero da solo o accompagnato dall’olio. Mi sembrava insulso; al suo posto preferivo sgranocchiare la dura scorza senza alcun condimento. Poi chiudevo il tutto con il “tappo mollica” in modo da imprigionare tutto il contenuto; nello stesso tempo, schiacciandolo, dovevo stare attento a non inzaccherare ciò che indossavo. Le mani erano già inzaccherate.
Delizia del palato e libertà infinita!

palatone [7]

Qualche volta introducevo, a crudo, anche qualche uovo fresco delle galline di nonna e non era raro che prima succhiavo l’albume, avendolo forato da ambo le parti, poi, tolta metà della scorza, intingevo nel tuorlo, crudo, la mollica del pane. Questo però era appannaggio della “palatella”. Una sorta di “uovo a’ la coque”.
Oggi le merendine si scartocciano e si mangiano, una volta avveniva il contrario: il pane prima si imbottiva e poi si gustava fino all’ultima mollica. A volte senza alcun condimento e se era duro si ammorbidiva con l’acqua della cottura dei fagioli o dei ceci.
In alcuni casi si immergeva una fetta tagliata in modo abbastanza spesso e/o grossolanamente  oppure, “u’ cantone” duro, nell’acqua fatta bollire ed insaporita con uno spicchio d’aglio ed alcune foglie di prezzemolo e, se c’era, vi veniva immerso anche un uovo. A me questo non era molto gradito, preferivo l’uovo in zuppa, con abbondante  pomodoro. Qualcuno l’ammorbidiva semplicemente con l’acqua fresca per cui pare che un americano, di passaggio a Napoli, non senza meraviglia abbia esclamato: “I napoletani sono molto puliti: lavano persino il pane!”

Le “freselle”, invece, richiedevano un’altra lavorazione e bisognava cuocerle due volte (da cui bis-cotto).  In origine vi erano soltanto quelle “scure”; poi si produssero anche quelle “bianche” a forma ogivale. Ambedue potevano, altresì avere anche la forma rotonda.

freselle [8]

La “galletta”era un pane biscottato, duro, senza sale, di colore tra il marrone ed il chiaro. Prima di infornarla si praticavano, al centro, con un apposito attrezzo, 5 buchi. Aveva una forma rotonda e piatta simile ad un disco volante. Leggerissima di peso, era usata dai naviganti sia perché non ammuffiva sia perché la si poteva trasportare facilmente in sacchi di iuta o di carta. Insieme, lì dentro,producevano un rumore simile a quello delle nacchere che le ballerine usano, agitando le mani, quando ballano il  Flamenco: “trac, trac”.

gallette [9]

Mie  fedeli compagne di viaggio quando mi “avventuravo”, con la barca, rigorosamente a remi, fino a Frontone o alla Scarrupata!  Un leggero tuffo nell’acqua salata e loro, da dure, durissime che erano, immediatamente, come una donna prima dura e restìa, poi arrendevole, divenivano morbide, morbide: la loro durezza era svanita, dissolta. Si lasciavano accarezzare, condire da un pomodoro senza olio, ma non senza sale (quello era già insito nell’acqua di mare, cristallina) e infine, prima o dopo una  “summ’zzata”, ammansite, si scioglievano in bocca.

I “fantasmi” del forno – eravamo bianchi di farina dalla testa ai piedi -, però, non restavano da soli. Devi sapere, infatti, che il forno era anche un luogo di aggregazione, di incontri tra persone e poi e poi… di cui ti dirò in altra lettura.

Intanto buon appetito a tutti ed un caro saluto ad Eva, Peppe, Silverio, Linda, a chi so io e a tutti i panificatori dell’Isola e del mondo intero che ci fanno trovare quotidianamente o per meglio dire prima odorare e poi gustare le delizie del forno

Pasquale

 

Nota (1) – Bolinder

I fratelli Jean and Carl Gerhard Bolinder fondarono una officina di costruzioni meccaniche presso l’area industriale di Kungsholmen (Stoccolma) nel 1844. Il loro marchio divenne rinomato specialmente per i motori. Nel 1893 la compagnia mise in commercio il primo motore a quattro tempi in Svezia; comunque il maggior successo della fabbrica fu nel campo delle macchine cosiddette ‘semi-diesel’. Si stima che l’80 per cento dei motori marini nel mondo, nel 1929, erano “Bolinder” (NdR).

 

[A proposito di pane e… contorni (2) – Fine]