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Il genio dell’abbandono

di Rita Bosso

wnada-marasco [1]

 

L’antidoto alla pubblicità è il passaparola; in tema di letture, ad esempio, se fosse per le recensioni  chiaramente prezzolate, se fosse per i balbettii di Fabio Fazio che pretenderebbe di far passare per capolavoro qualunque ciofeca, se fosse per i meccanismi sin troppo prevedibili dei premi letterari, rientreremmo tutti nella fascia di chi legge 0,03 libri all’anno.  Viene in soccorso il circuito virtuoso del passaparola che va utilizzato ma anche alimentato, per esempio segnalando un’opera che emoziona, che àncora alla pagina, che costringe a rileggere più volte; per intenderci, una lettura da sconsigliare agli amanti del minimalismo.

Wanda Marasco. Il genio dell'abbandono [2]

Sulla copertina del romanzo  Il genio dell’abbandono (di Wanda Marasco, Neri Pozza edizioni)  c’è un volto: di uomo o di lione? Il volto allungato e scavato, gli zigomi pronunciati, gli occhi, la barba-criniera sono quelli di Vincenzo Gemito che, nella tensione dell’autoritratto, cerca di mettere d’accordo tre facce: a soia, chella riflessa dallo specchio e quella che stava nascendo sul foglio, vera misura di uno scavo solitario; ma dal disegno emergono anche i tratti del lione che, da ragazzo, Vicienzo ha disegnato innumerevoli volte, sostando davanti alle gabbie di un circo: i canini, i molari, ‘a lengua, l’abisso della gola con cui  il ritrattista istituisce un patto di sangue, lo stesso che lo legherà a tutti i soggetti della futura carriera di scultore.
“O lione? ‘O lione è pateterno, fa tutte cose” esclama ammirato Vicienzo bambino che di notte, di nascosto, percorre la Napoli sotterranea per raggiungere le grotte sottostanti il teatro Bellini, dove sono sistemate le gabbie. In entrambi i casi, quando ritrae le belve e quando, ormai anziano, traccia il proprio autoritratto, Vicienzo è alla ricerca spasmodica del Vero.
Ancora più leonino è il Vicienzo fotografato nel 1928, quasi ottantenne: un lione scheletrico, vecchio ma tutt’altro che domato, e infatti la mano è un enorme artiglio nero che ancora potrebbe afferrare energicamente, magari per sottoporre la moglie Nannina al rito dello strascìno.

gemito1928 [3]

La vita dello scultore c’è tutta, in questo romanzo: la nascita nel 1852, la deposizione nella ruota dell’Annunziata, l’adozione da parte di Giuseppina che sarà madre tenerissima, l’apprendistato e la scoperta del talento, il genio dell’abbandono per dirla con le parole di un suo amico e collega; ci sono i primi successi, la vita bohemienne a Parigi, i riconoscimenti e i debiti, la sifilide, la follia, la clausura ventennale: tutto si riversa sul lettore, lo avvolge e lo coinvolge, lo disgusta perfino, quando si legge di gialle zampe di gallina bollite e sgranocchiate, di intestini di pollo infarinati e fritti. La fedeltà al dato storico è assoluta, ma diventa secondaria rispetto alla potenza della narrazione; Vicienzo non è descritto, non è ritratto ma è scolpito a tutto tondo.  Funzionale all’esigenza di Vero è la lingua: un napoletano verace, vigoroso, ricco, denso,  di straordinaria potenza espressiva. In nessun altro modo potrebbero esprimersi Vicienzo, Nannina, Mastu Ciccio e gli altri personaggi di questo romanzo meraviglioso; non una concessione alla moda del dialetto, dunque, ma una lingua necessaria.

Autoritratto di Vincenzo Gemito [4]