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Un pomeriggio di m…

di Silverio Guarino
mal-di-pancia [1]

 

E’ un modo di dire, una metafora, quando ci si riferisce ad un episodio, una persona, un paese, un acquisto, un cibo, una città, una amministrazione, un viaggio, un esame, un libro, definendo come “di merda” il sostantivo al quale è attribuito.
Ma, per quanto Fabrizio De André ricordi che “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior…”, non è stata una metafora per me, quel pomeriggio.

I fatti.
Avevo 15 anni, era la fine di agosto e quel pomeriggio, alle 17.00, partivano alcuni nostri amici con la “corsa” del piroscafo per Anzio. Per loro, le vacanze erano terminate. Come era nostra abitudine, chi rimaneva sull’isola aveva il compito di costituire il comitato addetto ai saluti, alla punta del molo.

Accingendomi a compiere quel “dovere” da sopra la Dragonara, dopo aver mangiato un po’in fretta, sentii dei movimenti vivaci nella pancia, che potevano essere premonitori di una imminente evacuazione, ma non detti importanza alla cosa, avevo ben altro cui pensare. Raggiunsi di corsa la punta del molo e gli amici in partenza.

L’“Isola di Ponza” partì in orario, con il consueto rito dei saluti con mani, magliette e fischi da sopra il lanternino. Poi, di ritorno, a casa.

Passando davanti all’attuale Welcome’s bar, sentii quei movimenti addominali accentuarsi, ma decisi di andare avanti. Potevo mai entrare da zia Carmelina solo per chiedere di andare in bagno?

Corso Pisacane sembrava non finire mai e la mia andatura cominciava a mostrare qualche difficoltà “posturale”. Passai davanti a zio Tatonno Farese (vicino all’attuale Agenzia di Gino Scotti). Ma potevo mai entrare da zio Tatonno solo per chiedere di andare in bagno? Con stoico coraggio decisi ancora una volta di andare avanti; la Dragonara, in fondo, non era poi così lontana e i movimenti della pancia sembravano essersi assopiti. Passando davanti la casa delle mie cugine Bettina e Maria Guarino (prima di iniziare la salita della Dragonara) decisi che ormai l’evacuazione impellente l’avrei fatta a casa, senza chiedere loro alloggio presso il loro gabinetto.

Solo che, andando in salita, le gambe erano costrette ad allontanarsi tra di loro, riducendo la capacità del controllo della situazione anatomica sfinteriale.
Perline di sudore coprirono rapidamente la mia fronte, mentre acceleravo il passo per raggiungere, con grande fatica, il gabinetto di casa.

Finalmente arrivavo. Solo che, per entrare nel cortile di casa, dopo aver aperto il cancello di legno, era necessario superare un gradino (che oggi risulta prudentemente e previdentemente spianato dagli attuali inquilini, Lucia Coppa e Michele Rispoli) che divideva il cortile stesso dall’esterno.

Gradino crudele! Sollevando la gamba destra per superare quel fatidico gradino, persi il controllo della situazione e… me la feci addosso!

In quel pomeriggio assolato di agosto, nel cortile luminoso e candido di bianco “ponzese” della casa di via Dragonara, mi venne incontro nonna Fortunatina, col grembiule (’u mandesìn’) davanti e il fazzoletto in testa. Resasi conto dell’accaduto, cominciò a ridere a crepapelle, con la pancia che le ballava sotto il grembiule e trasmise anche a me quella risata gioiosa, anche perché, dopo il “fatto”, mi ero liberato anch’io della tensione (mentale e fisica).
“…’A vicchiaia avev’a vede’ ’sti ccose!” – Continuava a dire ridendo, mentre mestamente mi recavo in gabinetto per liberarmi dell’indecoroso peso e di quella imbarazzante situazione.

Altro che metafora e metafora! Era stato per me proprio un pomeriggio di merda! Il “rispetto umano” e il pudore di entrare in casa di parenti e conoscenti solo per chiedere di usare il gabinetto mi avevano giocato un brutto scherzo!

Morale: se ti scappa, fermati subito al primo posto utile e disponibile e non andare oltre. E ricordati di spianare i gradini!

 

P.S.: Le mutande (dal latino gerundivo neutro plurale “mutanda”: le cose che devono essere cambiate) le lavai io personalmente, dopo averle completamente “svuotate” del ‘malloppo’ nel gabinetto di casa.