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Divulgazione dell’opera di Déodat de Dolomieu “Memoire sur les iles ponces”. (1)

di Francesco De Luca
Palmarola dall'alto [1]

 

Sto leggendo il libro che Deodat de Dolomieu scrisse sulle isole ponziane. Lo leggo con l’interesse di chi vuole arricchire di nuovi dettagli la conoscenza sulle isole dell’arcipelago.

Dolomieu è quel geologo che ha dato il nome alle Dolomiti.

Il libro fu edito nel 1788 in francese ma la traduzione in italiano è del 2014 ad opera di Giuseppe Massari in un libricino “Per la Storia dell’Isola di Ponza”, presentato di recente a Ponza (leggi qui [2] – NdR). Giuseppe Massari è ospite di Ponza affezionato e di lunga data.

E’ questo il libro cui mi riferisco allorché evidenzio alcune notizie. Lo farò rapportandole al contesto delle mie conoscenze, mostrando la loro valenza all’interno di quanto è stato scritto sulla storia di Ponza e del suo arcipelago. Ecco perché definisco il presente mio intervento di “divulgazione”.

Orbene lì dove abborda la descrizione di Palmarola (pag. 57) Dolomieu scrive: “Niente ricorda più né la forma né lo stato primitivo: vi sono delle rovine appartenute ad un grande edificio, ma delle quali non vi si trova nulla che indichi precisamente a cosa servissero” .

Dove trovò Dolomieu queste rovine? Indirettamente lo spiega lui stesso alcuni righi dopo, quando dice che : “non è abbordabile (l’isola) che nel piccolo porto nella parte di nord-ovest” (pag. 57).

Palmarola da Monte Tramontana [3]

E’ da supporre che sia sceso per breve tempo soltanto sulla spiaggia di san Silverio, chiamata anche “il porto”. E che qui abbia rilevato tracce di un edificio distrutto.

Dall’intera descrizione che fa dell’isola non sembra che sia sceso in altri posti. Giudica infatti ogni approdo difficile (“il suo accesso è ancora difficile” – scrive ), e le notizie che dà delle coste mostrano chiaramente di averle viste dal mare (“Le scarpate che sono alternativamente da un lato e dall’altro, sono per la maggior parte molto ripide e terminano con delle pendenze che sono dei muri perpendicolari, dei quali il mare bagna i piedi” – pag. 58 ).

Però quelle macerie in prossimità della spiaggia le notò! Ebbene esse potrebbero essere messe in relazione con quanto si dice che a Palmarola sia stato edificato un monastero. Apollonj Ghetti scrive che nel 1063: “Maria, duchessa e senatrice, insieme col figlio Atenulfo II, duca di Gaeta, per la salvezza della sua anima e a suffragio di quella del rispettivo e predefinito marito e padre, concede al Monastero dei SS. Teodoro e Martino di Gaeta, e per esso al suo abate Giovanni, tutta l’isola   quae dicitur Palmaria , affinché si costruisca un monastero vicino alla chiesa di S. Maria “che quivi pare sia stata costruita”, riservandosi la quarta parte degli uccelli che saranno presi sull’isola e la quinta dei pesci” (L’arcipelago pontino nella Storia del Medio Tirreno – pag. 111 ). Anche Pasquale Mattej riferisce di quei ruderi visti, e così anche il Tricoli (pag. 75).

Trattavasi, per essere chiari, dei ruderi di una chiesa e di un monastero.

La presenza di monaci a Palmarola negli anni dal 1063 al 1254, è una certezza. Gli uomini, specie quelli motivati da fervore cristiano, erano spinti a testimoniare la fede in uno stato di solitudine e di ristrettezza.

Una nota di colore l’apporta l’ingiunzione che il papa Innocenzo IV nel 1251 invia ai monaci dell’isola: “I frati che sono in Palmarola odano la messa almeno una volta al mese e si comunichino sette volte l’anno” (Apollonj Ghetti – pag. 112).

Dolomieu guarda lo spettacolo delle coste di Palmarola con l’occhio decisamente inclinato verso la presenza di segnali di vulcani, tanto è vero che non nota i ruderi che dovevano esserci sullo scoglio di san Silverio. Evidenti ancora 60 anni dopo e attestati dal Mattej a pag. 58 del suo libro: L’Arcipelago ponziano.

S’avvide però che l’isola era visitata dai coloni. Scrive : “questa isola non può essere abitata né coltivata in modo stabile: le parti della sua superficie ove le pendenze sono un po’ meno ripide, sono ricoperte dagli arbusti della macchia che servono di supporto per sostenere le vigne” (pag. 51). E dunque le vigne erano state piantate e venivano coltivate.

Ciò avvenne dopo che da parte di Tanucci, l’oculato ministro dei Borbone, ci si accorse che l’isola veniva depredata del legname, da gente che ne faceva commercio, senza alcun provento per le casse del Re di Napoli, non solo, ma l’isola era rifugio prediletto di pirati. Decise perciò di venire incontro alle ripetute richieste dei coloni delle isole affinché venissero loro concesse particelle di terreno da far fruttare. La parcellizzazione venne eseguita (25 settembre 1788) e talune famiglie di coloni ponzesi ebbero terreni e grotte a Palmarola.

Quella di Dolomieu a Palmarola fu una visita fugace. Non si trattenne per la notte. Se l’avesse fatto non si sarebbe lasciato andare ad affermazioni troppo puerili per sortire da una mente scientifica coma la sua. Scrive: “Si suppone che sia popolata dai diavoli; il pregiudizio è così forte che è con la paura che le barche dei pescatori vanno a passare la notte o nel porto, o al riparo delle sue rocce”. Troppo puerilmente assunte dalle chiacchiere dei ponzesi nativi.

Le chiacchiere? Sì, le ascoltò e pure tante; non solo, ma le riportò come verità. Incappando in errori madornali.

Di cui si dirà in un secondo momento.

Palmarola. Forcina [4]

 

[Divulgazione dell’opera di Deodat de Dolomieu . (1). Continua]