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Cinquant’anni da raccontare (1)

di Adriano Madonna

il tempo che passa [1]

Una manciata di “appunti di viaggio” di vita vissuta e qualche storia per
ricordare i nostri giorni dell’ultimo mezzo secolo del secondo millennio.

 

12 febbraio 1999: oggi ho cinquant’anni. Mi guardo allo specchio e mi dico che ho mezzo secolo. Messa così, la cosa è più seria. Si usa dire “mi sembra ieri”, ma a me non sembra affatto ieri se penso a quand’ero bambino e poi ragazzo. Anche se rammento i tempi del liceo non mi sembra ieri, e i miei compagni di scuola, come Luciano Guadagno, per il quale composi questa rima sconclusionata ma che ci faceva tanto ridere, come accade sempre a scuola quando si dice una fesseria qualunque:

Guadagno il cagno, che fa il bagno nello stagno insieme al ragno”.

Il professor Costanzo, nostro insegnante di lettere, avrebbe segnato con un frego blu quell’ “insieme al…”, perché in “Italiano vero” si dice “insieme con”, ma oggi nessuno ci fa più caso: si dice che i tempi si siano evoluti e anche la grammatica. Balle! In realtà, siamo tutti più ignoranti.

Penna e calamaio

Quand’ero bambino, Superman si chiamava Nembo Kid e i quaderni di scuola più economici costavano 10 lire ed erano bellissimi, perché avevano i fumetti in copertina, oppure il disegno a colori di un capo indiano con le penne e altra roba simile, ma gli insegnanti non li guardavano di buon occhio perché erano frivoli e in qualche modo andavano contro il rigido regolamento didattico, che vietava di portare a scuola quant’altro non fosse rigorosamente scolastico, figurarsi gli indiani con le penne! I quaderni che costavano di più, invece, erano anche molto più seri: avevano la copertina tutta nera e il bordo delle pagine rosso, come i registri del ministero.

A scuola si scriveva con la penna e il calamaio: Concetta, la bidella, passava tra i banchi con un fiasco d’inchiostro e ci faceva il pieno un giorno sì e uno no. Spesso i calamai erano pieni di pezzi di carta assorbente che lasciava i pelucchi sui pennini, e questi facevano dei pastrocchi orrendi sui fogli bianchi.
la penna con il pennino [2]
Non era facile scrivere con penna e inchiostro, perché, se non ci si faceva bene la mano, le macchie erano tragiche e frequenti. Allora si doveva strappare la pagina e cominciare tutto da capo. Mio padre, ufficiale dell’Esercito, di tanto in tanto s’ingegnava ad asciugare la macchia con il Borotalco Robert’s e a grattarla via con la lametta da barba… Gillette, naturalmente, perché altre, allora, non ne esistevano.

Erano i tempi dell’economia ai massimi livelli, certe volte roba da veri prestigiatori della lira. Mio padre aveva un apparecchietto (ancora lo conservo), “l’Allegretto”, che serviva ad affilare le lamette, così queste si gettavano via solo quando il filo, fatto e rifatto, era giunto al lumicino.

A scuola in divisa

Alle scuole elementari si andava con il grembiule nero, un colletto bianco e un vistoso fiocco azzurro. Il colletto era diventato un segno di distinzione dei diversi ceti sociali ai quali gli alunni di una classe appartenevano. Ricordo, infatti, ma ne ignoro i motivi, che i figli delle famiglie borghesi avevano duri colletti in un materiale simile alla plastica, ma che, naturalmente, non era plastica, ancora di là da venire. I bambini di più modeste origini portavano, invece, un collettino di stoffa fatto in casa, morbido ma comodo, che a volte poteva mostrare un ricamino lungo il bordo. Quando si andava incontro all’estate e cominciava a fare caldo, il colletto rigido diventava un cilicio, quello di stoffa era come non averlo.
alle elementari [3]

Anche il mio compagno di scuola Cicioni Serafino portava il collettino di stoffa: suo padre faceva il netturbino e, naturalmente, essendo povero, doveva essere, come usi e tradizioni allora comandavano, anche comunista. Il mio amico Cicioni Serafino, che era povero ma intelligente, certamente doveva aver sentito parlare dei fulgidi orizzonti ai quali il comunismo italiano, forgiato a immagine e somiglianza di quello sovietico, avrebbe condotto le classi meno abbienti, e così, un giorno che il maestro Landi gli intimò di sedersi, Cicioni Serafino, fiero e rivoluzionario, rispose a gran voce:

«Io so’ povero e nun m’assetto!»

Lo stesso Marx sarebbe stato fiero di lui.

Anche le succitate penne con il pennino erano diverse e indicavano i livelli di agiatezza delle famiglie alle quali si apparteneva: quelle dei bambini “ricchi” erano di legno laccato e a forma di fuso, un sottile cono che terminava a punta.
pennini e penna per inchiostro [4]
Le più sofisticate potevano avere la parte superiore piatta, a foggia di tagliacarte. Le penne economiche, quelle “da battaglia”, che comperavamo nella botteguccia oscura di “Sciampagnone” o da “Polo Nord”, erano semplici stecchi di legno tondi e sottili, verniciati sempre di bianco, rosso e verde, come la bandiera italiana, piccolo ma significativo segno di quel patriottismo che faceva capolino con fierezza dalle pagine de “La piccola vedetta lombarda”.

Sulle orme del Cuore

A scuola si leggeva il libro Cuore, con particolare attenzione a quei brani che conservavano il sapore di un’epoca appena trascorsa: sui muri delle case vecchie ancora si leggeva il famoso “vincere e vinceremo”, e un “pezzetto di Cuore” al giorno si riteneva che facesse crescere sani e forti, al pari delle bistecche, molto meno economiche. Poi, a casa, si facevano riassunto e temino dei vari capitoli. L’onesto Garrone era il figlio d’Italia da imitare, De Rossi lo scolaro modello, Stardi la lusinghiera immagine della perseveranza, Franti il diavolo con i calzoni corti che ogni padre di famiglia avrebbe scaraventato volentieri giù dalla finestra. Il maestro faceva in modo che l’ultimo capitolo di Cuore coincidesse con la fine dell’anno scolastico, e quando si arrivava a quel famoso “… E io non potei dir nulla”, a noi, bravi fanciulli degli anni Cinquanta, spuntava fuori una sincera e spontanea lacrimuccia.
Il libro Cuore di edmondo De Amicis [5]


Sacro e patriottico

All’inizio e alla fine delle lezioni si recitavano in coro le preghiere, in piedi, accanto al banco e a mani giunte, con qualche Ave Maria extra che ci poteva scappare a mezza mattinata in occasioni particolari, come quando il Papa aveva l’influenza e lo comunicavano al Giornale Radio.

Ce la mettevamo tutta nel cantare “Fratelli d’Italia”, il “Piave mormorava” e “Si scopron le tombe”. Ai più tranquilli piaceva “Và pensiero”. Il tricolore, sempre stracciato e a brandelli nel turbine della battaglia, sventolava sulle trincee di Trento e Trieste, nelle pagine del sussidiario. Non ricordo una sola immagine degli eroici soldati d’Italia con una bandiera nuova.

Faceva effetto e si rileggeva spesso l’episodio di Enrico Toti, che aveva lanciato la stampella contro il nemico.
La copertina della Domenica del Corriere dedicata ad Enrico Toti [6]
Ci provò anche Cicioni Serafino a gettare, ovviamente non la stampella, ma il sedile del banco, contro Erasmo Spinosa, a immagine di Enrico Toti, ma Toti era un eroe della guerra d’Italia, Cicioni Serafino solo un disgraziato che aveva rifiutato di sedersi perché povero e comunista: nota di biasimo sul registro e convocazione dei genitori dal direttore.

 

[Cinquant’anni da raccontare (1) continua]