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Un amore a otto zampe

di Adriano Madonna

Ho letto il bel racconto “Pupo, il cane corriere”, illustrato con immagini davvero suggestive. Parlando di cani, dunque, vi invio il racconto di Arsenico, il cane della mia giovinezza, che aveva un grande amore: la gattina Biki.

Arsenico e Biki [1]

Biki era una gattina fine e gentile e sembrava una di quelle bestiole delicatine da salotto. Arsenico era un cane tutt’altro che aristocratico, felice e chiassoso come il Vagabondo di Disney, con il pelo lungo e sempre arruffato e la coda dritta. Arsenico fu il primo ad arrivare a casa mia, e quando, in seguito, giunse Biki, tra i due nacque un grande amore. Ascoltate, dunque, questa storia.

***

Kira, la cagna del dottor Piccirillo, stimato farmacista del paese dove sono nato e vissuto per ventiquattro anni, aveva avuto otto cuccioli color cioccolata. In un pomeriggio di dicembre me ne portai uno a casa: un batuffolo rotondo del quale, solo a guardare bene, si riusciva a capire dove fosse la testa e dove la coda. Raccontai la frottola del cuccioletto abbandonato sulla strada che rischiava di finire sotto le ruote delle automobili, poi mia madre capitò nella farmacia del dottor Piccirillo, che, candidamente, le chiese come stava il cucciolo, e venne fuori tutta la storia, ma ormai il cagnetto stava a casa nostra già da una settimana: come si fa a dare via un cane dopo una settimana?

Lo chiamai Arsenico, il nome di un veleno, perché desideravo che diventasse un cane grande, forte e attento, invece Arsenico restò piccolo e con l’indole del cucciolo giocherellone con chiunque gli si avvicinasse. Mi dissero che era un incrocio fra uno spinone e un pastore bergamasco, infatti dal primo aveva ereditato la passione per l’acqua e del secondo mostrava decisamente l’aspetto. Spesso e volentieri, anche d’inverno, si lanciava in mare per raccogliere rami d’albero (cimentandosi eroicamente anche con quelli più grossi di lui) e sugherelli di rete, per il gusto di riportarli a riva; poi si sedeva sulle zampe di dietro, sollevava il muso e mi guardava, o almeno penso che mi guardasse, perché gli occhi erano completamente coperti dal pelo che gli scendeva dal capo sul davanti, come quei cani che fanno la guardia alle pecore.

Arsenico, sin da quando lasciò la scatola di cartone dove aveva dormito da piccolo, fu sempre un cane disobbediente, disobbediente e felice, capace di salti altissimi per darmi una leccata in faccia. Subito dopo partiva a razzo con una velocità straordinaria e riafferrarlo era un’impresa impossibile. Imparai che bisognava ignorarlo, fingere che non esistesse: allora si sentiva trascurato, diventava triste e si riavvicinava. A quel punto, se commettevo l’errore di fargli una carezza, si rinfrancava di colpo, ritrovava la sua straripante gioia di vivere da “mascalzone senza educazione” (termine coniato da mia madre) e scappava ancora.

Una volta ebbi l’infelice idea di portarlo in uno di quei posti un po’ eleganti dove lavano i cani, quelli che hanno il certificato di nascita e l’albero genealogico, ma Arsenico combinò una tale sarabanda fra gli altri clienti a quattro zampe, che l’inserviente mi riconsegnò “il fagotto” e mi fece capire che la sua presenza non era gradita. Da quel giorno decisi di lavarlo con la pompa del giardino.

D’inverno Arsenico sfidava il freddo con la sua pelliccia di peli ingarbugliati che era un vero cappotto, ma quando arrivava l’estate lo portavo da un tipo che tosava le pecore e i cavalli e veniva fuori un corpicciolo esile tutto pelle e ossa e una grossa testa. Poi il pelo ricresceva e a ottobre Arsenico raggiungeva di nuovo il doppio della sua grandezza, pronto ad affrontare una nuova invernata.

gattino [2]

Biki arrivò a casa nostra una sera d’autunno, in maniera alquanto insolita: avevo fatto, con un amico d’infanzia, una passeggiata verso le spiagge lontane dell’Ariana e di San Vito e, ricordo, a lato di un viottolino, fra i cespugli, m’ero chinato ad accarezzare una gattina grigia e bianca, poi avevo continuato la passeggiata. Dopo il tramonto ero ritornato a casa, ma, mentre salivo le scale, m’ero accorto che la gattina era dietro di me: m’aveva seguito passo passo dalle spiagge. Miagolava e mi guardava: doveva essere affamata, e infatti lo era, perché ricordo che mangiò quasi tutto il pesce che quella sera sarebbe dovuto essere la nostra cena, poi si addormentò. La guardai acciambellata sulla vecchia coperta e decisi di chiamarla Bikila (Biki per gli amici), come il famoso maratoneta scalzo delle olimpiadi di Roma, per quel lungo viaggio che s’era fatta sulle sue esili zampette di giovanissima gattina. Il giorno dopo, preoccupato, la portai in giardino per fare le presentazioni con Arsenico, e io, che ritenevo la convivenza impossibile, dovetti ricredermi: Arsenico l’osservò ben bene, poi l’annusò ancora meglio e infine la leccò sulla testa e sulla schiena, mentre Biki gli si strisciava contro le zampe in un concerto di fusa. Fu quello l’inizio di un grande amore, con Arsenico che s’era dedicato totalmente alla gattina, prendendola sotto la sua diretta protezione. Ad esempio, se Biki si avvicinava mentre lui mangiava, Arsenico si faceva da parte, le cedeva il posto come un vero cavaliere e solo quando la gattina era sazia ricominciava a mangiare. Quando mia madre qualche volta usciva con Arsenico al guinzaglio, tutti la guardavano, perché Biki seguiva passo passo, ma se incominciava a piovere la gente guardava ancora più divertita, perché Biki camminava sotto il cane per ripararsi.

Arsenico e Biki 3 il riparo [3]

L’espressione massima di questo amore straordinario l’osservammo quando Biki ebbe i micetti, perché andò a partorire nella casetta di legno di Arsenico, e lui fu un ospite perfetto e commovente: dormì davanti alla porta della cuccia, sotto le stelle, per far posto alla sua amica e fare la guardia ai gattini, infatti fu l’unica volta che davvero non fece avvicinare nessun estraneo, ringhiando e mostrando i denti.

Invecchiarono insieme: a tutti e due scese un velo sugli occhi e vedevano poco. Un brutto giorno, Biki, che di tanto in tanto si allontanava per qualche breve passeggiata, non tornò. Arsenico l’attese per qualche giorno, ormai macilento e senza un briciolo di voglia di mangiare, poi mio fratello lo trovò acciambellato nella cuccia e sembrava che dormisse.

Lo seppellimmo sotto il limone, quello che non aveva dato mai frutti, ma dall’anno dopo, certo per caso o per chissà che… i limoni vennero a quintali.

“Tanto può l’animaccia di un cane” avrebbe detto Giovannino Guareschi.

Arsenico e Biki 1 [4]