Detti e Filastrocche

Di nasse e d’altre cose. Ne parliamo con Peppe Sandolo.

di Vincenzo Di Fazio (Enzo)

Peppe Sandolo

 

C’è una generazione, quella nata a cavallo dell’ultima guerra, che ha vissuto buona parte della propria infanzia appresso ai propri padri. Per imparare il mestiere, per alleggerire le fatiche delle madri o, semplicemente, perché così si faceva.
Quelle esperienze fuori di casa erano lezioni di vita e, permettendo di emulare in molte azioni i grandi, diventavano anche occasioni di riscatto dalla condizione di soggezione tipica dei bambini. Quante volte ci eravamo sentito dire: “nun fa pe te, si troppe pitte” o “tu statte zitte, parle quanne pisci ‘a quaglia”.
Capitava allora, finita la scuola, di seguire i padri nelle campagne di pesca o, come è successo a me, di vivere nei fari isolati di Zannone e della Guardia.

Peppe, figlio di pescatore, a 6 anni già andava per mare, ma lontano da Ponza, nelle acque dell’ isola di Pianosa.

Ne parliamo a casa sua in uno dei freddi pomeriggi appena trascorsi quando l’autunno, deciso, ha ormai dato le consegne all’ inverno.
Giuseppe Sandolo (Peppe per gli amici), classe 1947, non ha fatto il pescatore da grande ma una bella carriera nella Guardia di Finanza tra i porti di Brindisi, Anzio e Formia.
Oggi, ovviamente, è in pensione ma serba ricordi nitidi degli anni in cui da ragazzino accompagnava il padre nella pesca alle aragoste, ai casterdelli ed ai merluzzi tra le acque dell’arcipelago toscano e la Sardegna.

Quando ci incontriamo troviamo sempre il modo di parlare di Ponza, di mare, di pesca, di attrezzature per pescare, di detti isolani, di aneddoti che tira fuori straordinariamente da quel cilindro magico che è la sua poderosa memoria.
L’altro giorno, mentre Civita, la moglie, accogliente e sorridente come sempre, ci preparava un caffè Peppe ha tirato fuori un pezzettino di carta su cui aveva trascritto, in uno dei momenti in cui il cilindro esonda di ricordi, una piccola preghiera in ponzese antico che recitava sua nonna Concetta (Cuncette ‘i pizzi ‘i pistole)

Me so sussute vive stammatine,
a Gesù Criste me voglie raccumanna’.
Li ccose de ‘stu munne so’ munnezza,
ie voglie amar’Addio nostra dolcezza
ca m’a fatte nascere iuste p’a gloria eterne.
Pezzentone vattenne all’inferne!
Signore lu cacciaste da lu ciele,
scacciamille da me ca nun turnasse.
E quanne stonghe ‘ncoppe ‘u punte d’o trapasse
tu manne all’angele Michele
ca me refende e me da lu passe.”

E subito dopo ha citato a memoria due detti, entrambi elogio della saggezza antica.

Il primo – mi ricorda – lo dicevano soprattutto le mamme, le zie, insomma le donne anziane, per mettere in guardia le ragazze dai corteggiamenti dei militi negli anni in cui Ponza era da questi frequentata:

So’ bettune ca lucene
O te tegnene o t’abbruciane
‘Na sunate ‘i tamburrelle
e addie… surdatielle”

Il secondo lo si sentiva alle epoche delle vendemmie:

Quanne se zappe e se pote
zi’ Nicole nun tene nipute,
ma quanne se recoglie e se vegnenne
i nipute cumme ‘i rampegne”

E potrebbe continuare all’infinito, Peppe, se non lo riportassi sulla strada della pesca di cui voglio sentirmi raccontare.
Gli chiedo, perciò, di parlarmi del suo primo viaggio, di come fosse la barca, delle emozioni provate.

“La prima volta avevo 5 o 6 anni”  – mi dice – “era d’estate, ma non andai con mio padre. Mi affidarono ad una grossa barca venuta a Ponza dall’isola d’Elba, in occasione della festa di san Silverio. Dovevo raggiungere mio zio Silverio (Silverio Feola, detto Chiaravalle, fratello di Totonne Primme) a Capraia dove aveva il gozzo. Questo era una barca lunga 7 metri, costruita a “La Galite”, tipo “spagnoletta”, panciuta con poco pescaggio. Si chiamava “Maria Concetta” con un motore entrobordo Bolinder di produzione svedese. Si pescava con le “rezzelle”.

pesca con le rezzelle

Lo interrompo per chiedergli quale fosse il suo compito.
Peppe , sorridendo, mi risponde che agli inizi faceva solo guai.

Una volta prese la scossa con la tremola, un’altra volta si conficcò un amo nel dito. Per toglierlo intervenne, sotto lo sguardo preoccupato del padre, lo zio Peppe (Peppe ‘i Carrocchia) che usò come bisturi il rasoio dei barbieri fatto bollire preventivamente per essere disinfettato. Condotto poi a terra, all’isola di Pianosa gli venne praticata l’antitetanica dal medico del posto, un certo dr. Coppa, guarda caso originario di Ponza. Una conferma di come i ponzesi si trovassero, ieri come oggi, dappertutto sempre disponibili a venire incontro ai bisogni dei propri compaesani.

Tra un pasticcio e l’altro passò la prima estate e gli era capitato, in più di un’occasione, di pensare con nostalgia ai giochi d’a curteglia, ma l’arte di andar per mare l’affascinava e… nei momenti “bui”, lo consolava la marmellata di amarene.

Eh sì, proprio la marmellata di amarene…
Zia Stella, la moglie di Chiaravalle, prima di partire gli aveva fatto dono di un barattolo di marmellata di amarene che Peppe conservava gelosamente sotto la prua, dov’era la sua cuccetta.
Peppe si svegliava più tardi degli altri, “quanne ‘u sole steve già nu rimme iaute”, praticamente un paio d’ore dopo l’alba e il primo pensiero era farsi pane e marmellata.

Ricorda che zio Silverio lo prendeva in giro.
“Assumme primme ‘a pagnotte e poi tu” – diceva e subito dopo:  “ma tu ancora ‘e faticà e già magne…”.

Quel tempo non trascorse vano, fu scuola di vita e non ci furono migliori lezioni che apprendere le cose osservando la manualità dei grandi.
Gli esempi nella vita valgono spesso più delle regole perché accorciano i tempi dell’apprendimento.
Così quando, l’anno successivo, trovò posto sulla barca del padre, una bella filuga ponzese di nome “Vulcania” costruita nel 1953 nei cantieri di Torre del Greco, gli venne affidato un compito ben preciso: quello di pulire i remmàge e legarvi l’esca nuova.

filuga ponzese

Il remmàge era la cordicella (con l’esca appesa) che, tesa all’interno della nassa, veniva legata in due punti opposti appena un palmo dopo l’imboccatura. Era fatta di filamenti di cocco ma si utilizzava anche lo strame che si trovava in grandi quantità a Zannone.
Le nasse si calavano e si issavano più volte nell’arco della giornata ed il compito di Peppe era appunto quello di pulire le cordicelle dai resti di esca e dotarle di quella nuova.

La pesca più redditizia era quella alle aragoste e la si praticava con una “patèrne” di nasse.

nasse - barca e pescatore

La patèrne si componeva di dodici nasse tenute legate l’una l’altra in maniera equidistante ed in modo da coprire un’area di fondale lunga più o meno 150 metri. Venivano calate ad una profondità di 50/60 metri e segnalate a galla con i “petàgni” di sughero, posti agli inizi ed alla fine della “patèrne”.

Per tenere ferme le nasse sui fondali, all’ estremità delle due corde, cui erano legate la prima e l’ultima nassa, veniva posta una pietra del peso di 8/10 chili, la cosiddetta “màzzere”.
Per far si che i segnali fossero ben visibili venivano utilizzati fino a 4/5 sugheri tenuti insieme sempre con le cime di cocco. Il primo sughero era attraversato da un’asticella (il più delle volte un pezzo di canna lungo 100/120 cm) alla cui parte superiore, pari ad un terzo della lunghezza, veniva legata un brandello di stoffa tipo bandiera che rimaneva dritta grazie al contrappeso del “mazzariélle”, una pietra legata all’estremità della parte sommersa.

schizzetto della Paterne di Nasse

Dodici nasse sono tante – osservo – come si faceva a tenerle a bordo senza correre il rischio che cadessero in acqua?” Peppe, sorridendo, mi dice che la “Vulcania” ne caricava fino a 48, cioè 4 “patèrne”.
Incredibile, 48 nasse!
“Una patèrne veniva sistemata a “fore vanne” (fuori bordo), sull’antenna orizzontale (l’asta per la vela latina appoggiata sulle apposite forcine); la seconda sopra; la terza dentro la barca e la quarta sopra quest’ultima”

carico di nasse

i nassaioli pescatori di aragoste

In genere, per recuperare spazio, si tenevano separati “i scuorze” (le strutture esterne) dalle “cape” (le strutture interne), in modo che potessero essere più facilmente sovrapposte.
Mi incuriosisce il fatto che una barca di dimensioni non certo grandi potesse contenere tanta attrezzatura. Gli chiedo, perciò, di descrivermi come fosse la “Vulcania”.

Una parte della prua era adibita a dormitorio; vi trovavano posto fino a 4 persone; non c’erano materassi ma solo qualche trapuntino. Agli inizi io mi arrotolavo in una coperta e come cuscino usavo un mazzo di reti senza “cuorcete” (sugherelli) e senza “chiumme” (piombo), praticamente una “rezza sciarmata”.
“Ricordo che quando il mare era grosso, sobbalzando con le onde battevo a volte la testa contro il legno di coperta. Ma imparai presto ad evitare i colpi seguendo il rumore del motore… avevo capito che quando scendeva “al minimo” significava che stava arrivando il cavallone; così mi appiattivo e mi spingevo verso il basso fino a diventare un tutt’uno con il giaciglio.
Ritornando alla barca, andando verso poppa c’era il vivaio per le aragoste capace di contenerne una quarantina di chili; poi il vano motore ed infine il pozzetto di poppa per le coffe ed i fusti di nafta”.

Non c’erano verricelli allora e le nasse venivano tirate su, in due, con la sola forza della braccia e puntando un piede contro la murata per dare vigore al corpo. Pesca faticosa ma per fortuna fruttuosa.

pescatori di aragoste 2

A quei tempi– continua Peppe – le aragoste (quelle vive) venivano pagate 700 lire al chilo e vendute alla famiglia Chiaravalle a Marciana Marina, un comune dell’isola d’Elba. Per mantenerle vive venivano conservate in apposite casse a mare ed alimentate, all’occorrenza, con sarde, sauri o qualsiasi altro pesce azzurro “

Buono il pescato, buona la paga” – mi viene spontaneo osservare.
Sorride ancora Peppe,  ritorna indietro nel tempo e, nel ricordare la consapevolezza e la modestia proprie dei ragazzini di quegli anni,  mi dice:
“Le prime paghe erano fatte solo di vitto e alloggio, poi venne qualche paio di scarpe e solo verso i 10 anni i soldi veri: 14.000 lire per due mesi e mezzo di lavoro”.

E’ calata la sera ed entrambi abbiamo degli impegni cui assolvere.
Chiedo a Peppe di dirmi ancora qualcosa sulle nasse, per esempio come ha imparato a farle visto che le sa fare.

Mi conduce nel garage per mostrarmi l’ultimo lavoro cui si sta dedicando, un “nassone” tutto di rami di mirto.

Peppe con il suo ultimo lavoro, un enorme nassiello

Ne farà dono ad un pescatore di Le Forna che ha una grande barca con cui poterlo portare. Servirà ovviamente per pescare di tutto, ma non le aragoste. Usando come esca una pagnotta di pane nascosta in un sacchetto di iuta potrà prendere le occhiate.

'u nassiello gigante

la capa del nassiello

“Ho imparato verso i 27 anni; ho cominciato dal coperchio, il tappo, “u tumpàgne”, fatto di giunchi incrociati cinque a cinque. Ero a Brindisi e già lavoravo nella Guardia di Finanza. Ero agevolato perché conoscevo il posto ove trovare i giunchi.
Il resto l’ho fatto da solo, a memoria, ricordando i passaggi che avevo osservato per tante volte. La prima l’ho sbagliata, la seconda è uscita discreta, la terza… buona. Ed oggi mi diletto ancora a farne qualcuna… perchè è un po’ come ritornare ai tempi passati, alle origini, alla “Vulcania” e alle emozioni che solo il mare sa dare”
.

Peppe su un gozzo nel porto di Ponza

(Peppe Sandolo, con la sigaretta,  su un gozzo nel porto di Ponza intorno agli anni ’70)

Saluto Peppe e ci diamo appuntamento per un’altra chiacchierata per parlare di pesca a castardelli e a merluzzi ed… aprire nuovamente il cilindro dei ricordi.

1 Comment

1 Comment

  1. Rita Bosso

    3 Gennaio 2015 at 20:58

    Il dottor Coppa citato nel pezzo era Dario Coppa, dentista, con casa e studio nella casa al piano superiore dell’emporio Musella; era amico di mio nonno, lo ricordo bene; a Pianosa fu medico degli ergastolani che costruirono per lui un tornio meccanico, poi passato a mio padre.

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