Ambiente e Natura

Paesaggi fornesi. Gavi, l’isola del caolino

di Giuseppe Mazzella
Gavi reduc.size

 

Ci fu un tempo in cui Gavi era un’isola a sé, ed era composta da un’unica particella catastale. Aveva i terreni terrazzati e coltivati dai contadini di Le Forna che la raggiungevano in barca, anche per raccogliere legna.
Lo “scoglio” ospitava anche alcune mucche, che davano latte, ed erano ricoverate nella stalle che erano al piano terraneo dell’attuale fabbricato. In più, una foltissima colonia di conigli da anni aveva preso possesso dell’isolotto e costituiva una preziosa riserva di carne per gli accaniti cacciatori e proprietari. Gavi, infatti, prima della cessione ad una famiglia di Roma, apparteneva ad una unica famiglia Vitiello.

Queste ed altre cose mi racconta Salvatore Sandolo, noto come “l’orefice”, per la sua antica professione, che ricorda sul filo della nostalgia i suoi anni d’infanzia sulla piccola isola in compagnia del padre.
“In una sola giornata papà sparò ben 13 conigli. Che festa!” – ricorda e ancora gli ridono gli occhi. Precisa, poi, che i conigli “grigi” erano stati portati da Marsiglia dallo zio Francesco ed erano il doppio dei nostri e si moltiplicavano a vista d’occhio. La caccia si estendeva anche alle centinaia di uccelletti che venivano catturati con le tagliole e i “lacciuoli”.
Fino a che si arrivò all’estrazione di caolino.
Negli scavi, per fortuna non eccessivamente devastanti, data anche la modeste quantità di materiale, si susseguirono alcune società come la “Soc. An. Caolino di Ponza”, o la “Chiurazzi”, storica fonderia oggi rilevata e salvata da una società dell’Arizona. Fu proprio questa società a regalare come dono di nozze alla mamma del nostro Salvatore un orologio di porcellana di “Capodimonte” che è ancora oggi conservato gelosamente in casa.

Salvatore Sandolo
Gli operai che lavoravano nella cava erano per lo più di Calacaparra, che si trattenevano anche per più giorni sull’isolotto. Il caolino era poi caricato su bastimenti di legno e trasportato alle fonderie di Napoli.
Alcuni fornesi avevano l’abitudine di prenderne piccole parti per usarlo, mescolato a grasso animale, come ruvido detersivo per i panni.

A metà degli anni trenta l’isolotto fu affittato all’ingegner Savelli per conto della S.A.M.I.P., la società che già estraeva bentonite a Le Forna. Fu un rapporto burrascoso, finito in tribunale, con la condanna dei proprietari a ben diecimila lire di danni e spese.
L’aver sottratto Gavi dai guasti degli scavi non bastò a salvare l’isola. Un rovescio economico nei primi anni cinquanta del Novecento costrinse la famiglia Vitiello a vendere per circa sedici milioni l’intera isola.
Così va il mondo, anche dalle parti di Ponza!

Capodimonte

1 Comment

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  1. Pasquale De Rosa

    19 Novembre 2014 at 05:56

    Sono Pasquale De Rosa. Ho letto l’articolo “Paesaggi fornesi. Gavi, l’isola del caolino” dell’amico Giuseppe Mazzella, nel quale si asserisce che, in origine, l’isolotto di Gavi era costituito da un’unica particella catastale, appartenuta ad un’unica famiglia Vitiello. Al riguardo, mi permetto di segnalare, sia in omaggio ai miei avi materni che per soddisfare la curiosità storica dei lettori, che la citata proprietà è da ascriversi a mio nonno Pietro Vitiello, detto “Piét’ Piét’” (forse, per distinguerlo da altri Pietro solevasi ripetere il suo nome in dialetto).
    Mio nonno sposò Silveria Feola, appartenente alla famiglia detta dei “sacrestani”. Essi ebbero 4 figlie femmine: Rosina, poi deceduta a New York, che non ebbe figli; Nannina, poi deceduta a Ponza, che anch’essa non ebbe figli; Civita che sposò Gennaro Sandolo, entrambi poi deceduti a New York, i quali ebbero due figli: Agostino e Rosetta; Dora, mia madre, che sposò mio padre Enrico De Rosa, dopo una clamorosa “fuitina” messa in atto a seguito dell’opposizione alla loro unione da parte dei miei nonni; a riprova del loro vero e appassionato amore, essi ebbero sei figli: Gelsomina, Mimmo, Anna, Pietro (per rinnovare il nome del nonno), Carmela e lo scrivente Pasquale. Della cessione di Gavi ad altri proprietari non voglio entrare nei particolari: ormai essa è storia vecchia fatta finire volutamente nell’oblio. Basti dire che, all’epoca, si trattò di una brutta storia di probabile circonvenzione a danno di persone modeste ed analfabete, solo dedite al duro lavoro ed alla famiglia, da parte di alcuni “furbacchioni” senza scrupoli. Sta di fatto che, grazie ad essi, tutti noi co-eredi abbiamo ereditato dal nostro nonno Pietro Vitiello soltanto “un sacco di mosche”.

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