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La storia di Giacinto, il corriere del Semaforo

di Vincenzo (Enzo) Di Fazio

 Giacinto Colella [1]

Uno dei pochi vantaggi che hanno le traversate per raggiungere Ponza con la nave è che le circa tre ore di viaggio occorrenti possono essere utilizzate in tante cose che hanno a che fare con i rapporti umani.
Così può capitare di rinsaldare un’amicizia, di fare nuove conoscenze, di incontrare vecchi compaesani, di raccontare del passato, di parlare dei problemi dell’isola e, anche… di pettegolare.

Quando eravamo ragazzi e i tempi di percorrenza con il Mergellina, l’Isola di Ponza ed il Falerno non erano molto diversi dagli attuali, quei viaggi spesso erano attesi e benedetti perché diventavano l’occasione per completare, con delle dichiarazioni d’amore, gli approcci sentimentali nati e coltivati durante le vacanze.

Uno di questi lunghi viaggi di ritorno da Ponza mi ha dato, qualche giorno fa, l’opportunità di parlare con Pina Colella e farmi raccontare un po’ del padre Giacinto, il corriere del Semaforo.

I miei ricordi di Giacinto risalgono agli anni 50 quando lo vedevo passare per la salita degli Scotti assieme ad un asino sempre carico di roba.

Asino [2]

Non molto alto, robusto, sempre ben pettinato e ben impostato, era affabile e gentile. Quando gli capitava di incrociarmi mi diceva sorridendo: “Uagliò, vuo’ venì cu’ mme? Te porte nu poche a spasse cu ciucce quanne arrivamme ncoppe ‘a guardia”.
Potevo avere 4/5 anni. Timido mi ritraevo ma, in cuor mio, avrei tanto voluto farmi quella passeggiata speciale.
Mi meravigliava il fatto che capitasse di incontrarlo, a salire o a scendere, anche diverse volte al giorno.

Ma quanti viaggi faceva Giacinto?
Mi dice Pina che d’estate ne faceva fino a 4 al giorno.
Il primo cominciava partendo da casa, in Via Madonna, alle quattro del mattino e d’inverno non lo fermava né la pioggia né il cattivo tempo.
Lo ricordo, infatti, nelle giornate piovose solitario dietro il suo ciuco, avvolto in un enorme mantello-impermeabile scuro da cui si scorgevano appena le punte degli stivali. Con quell’aria misteriosa l’avrei ben visto anche alla guida del timone di una barca di pirati in mezzo al mare in tempesta.

Portava di tutto sul semaforo, mi racconta Pina. C’erano i giorni stabiliti per il carbone, quelli per il cibo e la biancheria pulita, quelli per l’acqua e per la posta.
L’acqua veniva raccolta in barilotti di legno, di quelli stretti e lunghi, assumendola dalle due fontane situate dalle parti di Via Roma: una si trovava difronte l’emporio della Musella e l’altra nel vicolo “dietro il Comandante” in prossimità dell’attuale Hotel Feola.

Quando passava con i due barilotti l’asino di Giacinto era più affaticato del solito, il carico sembrava volesse scivolare e l’acqua schizzar fuori talmente traballava assieme alla sella; Giacinto ne controllava i movimenti, se necessario si fermava e rinforzava i legacci e passando una mano a mo’ di carezza sulla testa dell’animale lo assecondava nell’affrontare la strada di traverso, zig-zagando, per alleggerire il peso della salita.

Amava tanto quel lavoro Giacinto ed amava tanto Ponza, mi racconta Pina.

Vi era venuto nel 1936 quando aveva circa 40 anni. Aveva vinto un concorso indetto dal Ministero della Marina e gli era stato riconosciuto un maggior punteggio perché ferito in guerra. Aveva infatti partecipato alla grande guerra 14-18 ed era stato anche insignito di due medaglie al valore.

 Giacinto militare [3]

 le medaglie al valor militare [4]

Lui, originario di Forìo d’Ischia, poteva scegliere tra Capri e Ponza e scelse Ponza rispetto alla più blasonata Capri. E Pina non si spiega, ancora oggi, quella scelta, oltretutto più penalizzante per via della maggiore distanza rispetto all’isola natìa.

A Ponza Giacinto conobbe l’amore. Si fidanzò infatti con una ragazza di nome Rosa con cui, però, si vedeva di rado per via degli impegni di lavoro. Ma Rosa aveva un “vizietto”. Nei momenti liberi le piaceva fermarsi all’osteria di Mondiale (l’attuale trattoria “La lanterna”) e bere qualche bicchiere di buon vino del Fieno. Furono i marinai del Semaforo a portargli la spia… per il bene che gli volevano, e la storia finì lì.

Ma era destino che Giacinto sposasse una donna di nome Rosa.

Rosa Impagliazzo, moglie di Giacinto [5]

A Forìo aveva adocchiato una bella fanciulla e, come nelle classiche storie d’amore di quell’epoca, Giacinto realizzò il suo sogno quando, in una domenica di primavera, aspettò Rosa che uscisse dalla chiesa del Soccorso dove era andata a sentir messa e le chiese la mano.
Appena sposati Giacinto e Rosa vennero a Ponza.

 Giacinto Colella e Rosa Impagliazzo sposi [6]

Fu quello il loro viaggio di nozze… Si sistemarono, pagando un fitto di 30 lire al mese,  in una casa di Via Madonna dove sono rimasti per tutta la vita e dove sono anche nati e cresciuti i tre figli.

ricevuta per fitto pagato [7]

Il lavoro con il Semaforo era un lavoro sicuro. Giacinto era molto ben voluto. Rosa, donna garbata, laboriosa, umile, non faticò molto a farsi anche lei ben volere dai militari del semaforo.
Le affidarono così la pulizia della biancheria. I militari erano tanti, forse una cinquantina, e, durante l’estate e le feste pasquali, vi si univano anche i familiari. Ciò che si ricavava andava ad arrotondare la paga di Giacinto consentendo di affrontare la vita e la crescita dei figli in maniera decorosa.

Le colate” Rosa le stendeva giù sul terrazzo della casa di Via Madonna; federe e lenzuola nel cedere ai venticelli pomeridiani la pesantezza del bagnato espandevano intorno il gradevole effluvio delle foglie di mirto che Rosa utilizzava per profumare i tessuti.

lenzuola stese al sole [8]

Ed ogni capo, nei pomeriggi fino a sera, veniva stirato con il ferro a carbone.

Quanta fatica sprigionava quella casa” – mi dice Pina visibilmente commossa – “quante belle cose ci hanno insegnato i nostri genitori e quanto amore ci hanno dato.”

Pina ricorda il Semaforo con le stanze spaziose, luminose e con le maioliche lucenti, i bagni tutti piastrellati, la cucina attrezzata e piena di pentole. Vi andavano in occasione delle “pasquette” che festeggiavano assieme ai militari. Avevano così la possibilità di rimediare anche qualche buon pezzo di cioccolata.
Una grande stanza era adibita, con tante attrezzature ed una radio, a ricevere e trasmettere segnali.
Quando è affondato il Santa Lucia i primi a venire a conoscenza della tragedia sono stati proprio i militari del semaforo attraverso una comunicazione in codice morse.

Semaforo-1955.1-300x223[1] [9]

 Semaforo-1955.2-300x220[1] [10]

Pina racconta del dolore e dello sgomento di Giacinto per quell’incredibile evento e dell’ansia legata alle sorti di 4 marinai ed un Comandante in servizio al semaforo che viaggiavano sul quel piroscafo.

Il Semaforo era anche un importante punto di riferimento per i fanalisti di Zannone quando il faro, non ancora dotato di una radio rice-trasmittente, si serviva, per le richieste di soccorso, della “telegrafia ottica” cioè della comunicazione fatta attraverso la segnaletica affidata al linguaggio di quadrati, rombi e palloni neri issati su una grande antenna a forma di croce collocata su Monte Pellegrino, la punta più alta di Zannone.
Ne parla anche Alfonso Gatto nel bel servizio pubblicato per il settimanale Epoca nell’agosto 1955 (leggi qui [11])

Il tempo scorre. Chiacchierando non ci siamo accorti di essere quasi arrivati a punta Stendardo, la punta più avanzata di Gaeta.
Chiedo a Pina di raccontarmi qualcosa di curioso legata al ricordo del padre.

Faceva anche il messaggero d’amore Giacinto”, mi dice Pina.
Capitava ogni tanto che dei militari rimanessero imbrigliati nel fascino delle bellezze isolane e Giacinto diventava l’anello prezioso per la consegna di lettere e messaggi. Quando ci scappava il matrimonio (e per quello che mi dice Pina ce ne sono stati diversi) Giacinto era sempre invitato alla festa di nozze ed, a parte i confetti, riceveva in regalo ogni volta o una bottiglia di marsala all’uovo o una bottiglia di liquore Strega (evidentemente facevano parte della dispensa del semaforo).

Giacinto è stato un tutt’uno con il Semaforo fino al 1955, anno in cui ammalatosi fu costretto a lasciare il lavoro.

Sono state tante le stagioni e le genti che l’hanno visto salire e scendere per la strada degli Scotti e per il sentiero che porta a Monte Guardia.

Verso-la-Guardia-203x300[1] [12]

Ne avrà consumati di scarponi e di stivali nei tanti cammini. Non si è mai risparmiato Giacinto; ha piuttosto pensato ad alleviare la fatica del suo asino, una femmina di nome Stella, cui le affiancò, quando il lavoro aumentò,  un’altra asina di nome Margherita. Ne avrà fatte, Giacinto, di chiacchierate con i contadini disseminati per “le catene” della Guardia ricche di vitigni di biancolella.

viti di biancolella nei terreni della guardia [13]

Ne avrà lasciati di pensieri al vento nei suoi viaggi solitari.

Ponza-dallalto-del-Monte-Guardia1-300x224[1] [14]

Non sapremo mai perchè quest’uomo potendo scegliere Capri, bella, famosa e vicina all’isola natia abbia scelto Ponza, isola selvaggia, complicata e distante.

Giacinto morì nel 1957.

Il Semaforo continuò per pochi anni ancora la sua attività, dismessa completamente agli inizi degli anni 60 con l’avvento dei moderni sistemi di comunicazione elettronica.

Da quel momento  è cominciato il suo declino diventando, come animale morto, preda di avvoltoi.
Cosa sia rimasto del semaforo oggi è lì,  sotto gli occhi di tutti: un rudere senz’anima svuotato ormai anche della sua storia.

Il Semaforo della Guardia oggi [15]

 

Nota: sulle funzioni del Semaforo ha scritto anche Enzo Bonifacio (leggi qui [16])