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Horcynus Orca. Ritratti di donne (4). Marosa (seconda parte)

di Tea Ranno

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Concludiamo con il presente articolo una serie di quattro dedicati da Tea Tanno a Ciccina Circè e a Marosa, due figure femminili centrali di uno dei più grandi romanzi del Novecento: Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo.
La  Redazione.

“Io ricamavo pesci e ogni pesce che ricamavo,
giuravo di non mangiarlo più in vita mia.
E allora, feci un patto con Dio,
e il patto era che sinché c’erano pesci in mare
e io ne avevo sempre di nuovi da ricamare,
Dio, per compenso, s’impegnava a farti tornare da me”
[Horcynus Orca, Mondadori, 1982, p. 837]

Per l’articolo precedente, leggi qui

Ma gli uomini possono farsi incagliare in un luogo, in un tratto di marina? Possono sopportare cavigliere di desìo, legacci di pensiero che imbrogliano i piedi?
L’uomo è per natura selvatico e dalle femmine che cuciono e legano non si fanno legare e cucire.
Tornano, certo, ma col tempo loro, seguendo il loro istinto e la loro convenienza.
Tornano, si riposano e già sono pronti a ripartire.
Così ‘Ndrja, che è tornato e già accetta di rimettersi in mare: una vogata, che male c’è? C’è piacere, anzi, una fratellanza, un patto d’amicizia tra uomini di terre diverse, amici e nemici, inglesi e americani: solo una vogata, per dimostrare chi è il più valente, chi meglio sa governare il mare.
Ma questa – Marosa lo sa – non è partenza, è spartenza grossa, se l’invito di ‘Ndrja a ricamare stavolta l’immenso Orcaferone significa che immenso sarà il tempo della lontananza, dunque spartenza, spartenza grossa.
E allora no, non ricamiamo più pesci, non ubbidiamo alla stessa necessità che ci fece scudo contro la morte per guerra; la morte ha ora altri colori, la morte è nel cuore? Che è nero, nero, nero; e se lo ricami, lo ricami ad agugliate violente: punti strammi e grossi come grosso è il retipunto nel cuore quando l’uomo si sottrae e promette di tornare e invece non torna.
E allora che senso ha aspettare? Illudere Dio e la morte, invocare il ritorno, la prestanza, la gioia negli occhi, il cuore che balla di contentezza?

Agugliate come coltellate, ma non nel cuore di lui, ché quello segue strade strambe, che sanno di libertà, di femminote possedute nell’ombra, sopra la rena, in uno spaesamento che toglie al cuore ogni cognizione e lo spalanca all’ignoto sentimento. Le muccuselle che stanno a casa – il telaio sopra le gambe, il petto duro e acerbo come coppia di verdelli, e la perseveranza, la testardaggine, quell’offrirsi maroso ai marosi che la vita inventa – quelle femminelle possono fare innamorare? Sì, se le si guarda con occhi altri, con occhi stupefatti per come, nel giro di niente, la muccusa spigò a signorina. Perché è così, il tempo cambia, il tempo trasforma.  

6. Tempia

 “Le andò vicino, la pigliò per i polsi e le sollevò le braccia (…). La rigirò tutta con gli occhi, la trovava cresciuta, sviluppata, come gonfiata dal lievito, se paragonata all’ultima volta che l’aveva vista…” (p.836).

Ma il tempo e l’uomo che cosa sono? Giorni che passano, e passando lasciano unghiate nel cuore, soprattutto quanto il tornare è apparenza, quando alle parole rassicuranti si sostituisce un destino.

Ma c’è destino che prescinde da Dio, dalla Morte? O sono – Dio e Morte – gli ingannatori di muccuselle, quelli che fingono, sì, fingono, di accondiscendere, e mostrano stupore davanti ai pesci mirabilmente ricamati, e mostrano ammirazione per quel lavoro perfetto, per quelle mani deboli e forti che, punto sopra punto, lavorano per aggiungere un giorno all’altro alla vita dell’uomo che hanno eletto a marito.
Ingannatori, che sotto sotto ridono: illuditi, picciridda, illuditi, pensi di essere così mirabiliosa da imbambolare il Supremo? Da incantesimare la Morte?
Ma Dio e Morte pensi che non ne sappiano una più di te?
Una, una sola, ma è proprio quest’unica solissima cosa che ti sfugge, il quibus che stravolge ogni piano, e cioè che per quanto tu possa legare, con parole e lusinghe, per quanto possa credere di incagliare l’uomo tuo, quello sempre scappa, sempre trova un modo per sciogliersi dai lacci e andare dove vuole, anche incontro al destino, anche incontro alla morte.
Perché l’uomo, un certo uomo guerriero e marinaro, non è altro che un lupo, un ladro: viene, sì, torna, quando ha bisogno di sentire parole di miele a sazio del cuore, quando è stremato e brama una stanza calda, un letto, un pane, un vestito odoroso di sapone, ma poi se ne va, Marosa, che credi? Viene, si sazia di carezze e di parole e forse s’illude, pure lui, che stavolta ha trovato la pace e metterà radici. Ma non è così. All’improvviso una voce chiama: “Vieni, andiamo, una vogata, una regata”. E lui subito si prepara, subito carezza a saluto la guancia e intanto giura e spergiura: “Ritorno, che credi, non ti lascio, non ti abbandono, vengo, vado e torno”. E se ne va.

7. Braccia

“Marosa era comparsa sulla porta col viso già rigato di lacrime: s’appoggiava con un braccio allo stipite, la faccia inclinata su quel braccio e piangeva, lo guardava e forse non s’accorgeva nemmeno di piangergli in faccia. Era desolata, come se ora restava orfanella, sola al mondo” (p. 1193).

Certo, nel cuore suo di navigante, forse c’è per davvero l’intento di andare e di tornare. Ma può capitare che in mezzo a un mare grande, un mare di lacrime fatte e rifatte, dove vogare può essere magnifico – in quell’ebbrezza di libertà, di dominio, di grandezza che ti spande l’anima e la fa smisurata – all’improvviso una pallottola ti centra la fronte e uccide il cuore, quello rosso vivo vivo che lei si ostina a ricamare per tentare, ancora, d’illudere il gran Dio e obbligarlo al rispetto del patto.

Una pallottola nel mezzo della fronte, uno scoppio in mezzo agli occhi come una vampa che getta per sempre nelle tenebre. E nel cuore di lei l’ultima agugliata sul telaio si fa pugnalata. E pugnalata che dice che ormai non ci saranno pesci del mare, uccelli del cielo, giaguari, gazzelle, colombi e sirene a poterti salvare.

E allora, per rendere a te, uomo menzognero, l’ultimo servizio d’amore, non resterà che un solo pesce, quello che nuota e vola, il pescerondine: saranno le sue ovitte spalmate con mano tremante sulle tue labbra a fare in modo che poi, al momento giusto, l’anima tua prenderà le ali e volerà. Lontano? Vicino? Chi lo può sapere.

8. Pesce volante

Pescevolante

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Questi scritti di Tea Ranno sono comparsi originariamente sulla rivista “O” di Omero, Scuola di Scrittura www.omero.it. Vengono ripresi su Ponza racconta perr gentile concessione dell’Autrice.

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[Horcynus Orca. Ritratti di donne (4). Marosa -Fine]

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