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Stracquo letterario. La cicirella

proposto da Sandro Russo
Cicirella [1]

 

“La cicirella galleggiava rivariva
e femminelle e muccusi, sui calcagni o all’impiedi dentro l’acqua,
l’andavano raccogliendo con la mano a coppo
come scremassero il mare del suo quaglio”
[Da Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo –Ed. Mondadori 1975, p. 771]

 

Nell’inesauribile mare magnum dell’Horcynus Orca – il gran romanzo di Stefano D’Arrigo, tra i grandissimi del Novecento – ci sta anche lo stracquo.
Che non è nominato con questo nome, però, e riguarda una ricchezza del mare che a Ponza è sconosciuta. Almeno per quanto ne sappia e mi sia potuto informare.

Nel romanzo ad essere stracquata è la cicirella e responsabile di tale fenomeno è l’Orca stessa…

La cicirella è nota, in Sicilia soprattutto, con vari nomi: come cirrimbirru, russulidda, cicerelli, ciccerello, aluzzetiello, anche se, nelle descrizioni del romanzo, quella che “stracqua” a Cariddi, è la cicirella nelle fasi più precoci del suo sviluppo…

Così a pag. 771 dell’edizione Mondadori del 1975:

La cicirella, è notorio, è la nannata, il lattume della misteriosa anguilla, appena appena, di alcune settimane, cresciuto, e se la nannata si piglia a ditate, e com’è, cruda, cruda cruda o spruzzata con qualche goccia di limone, si mette in bocca e s’inghiotte, la cicirella, se non s’inghiotte, si scioglie in bocca, addentarla sarebbe quasi sacrilegio. Per questo di conseguenza, bruscarla alla fiamma non dev’essere mai più d’una semplice passata e ripassata, più che alla fiamma, al suo calore: quella volta, fra l’altro, la questione, bruscata o cruda, era di addobbarsene all’istante la pancia.”.

Poco prima viene spiegato:

“Successe questo: il mare, sarà stato mezzogiorno, come da un calofaro di rema, come dalla spirale d’una vena persa di remamadre, una vena di bastardello, di montante o di calante, che dallo sprofondo filava, sfilava a summo quei pescicelli, tutt’un biancore davvero d’argentovivo, si era messo di punto in bianco a eruttare cicirella.
Isso fatto, a quella vista, si erano gettati alle grida: maremoto, maremoto.
Le madri si stringevano al petto i vava, i padri si mettevano in collo i muccuselli, pronti a scappare in cima ai Peloritani, all’Antinnammare, perché è notorio che la comparsa in superficie della cicirella, il pescicello già formato, anche se ancora cogli occhi chiusi, di quelle grandi e misteriose cove dí anguille che stanno ammatassate in letargo, lassòtto, sul fondo abissale, è sempre un primo, primissimo segno di catastrofe, come lo fu nel terrificante Ventottodicembre, quel terribilio di maremoto che sdiluviò appunto in quel giorno del millenovecentotto, quando di cicirella ne eruttò tanta e fu rigettata con tale violenza verso l’alto, che chi, come Ferdinando Currò, la vide in quell’alba di finimondo, disse che la colonna di cicirella aveva raggiunto con la sua punta più alta la cima dell’Aspromonte”.

Si riferisce al terribile terremoto e maremoto di Messina del 1908: mareterremoto, dice l’Autore:

“Trattennero perciò il respiro, fissando il mare nel punto dove la cicirella aggallava in un bianco lucente ribollìo e si spandeva intorno come una polla sottomarina, un soffione sulfureo. Passarono i secondi fatali e non successe niente. La cicirella però continuava ad assommare: era solo un infioramento summo summo, lo sdipanamento di un filo argenteo di pescicelli, un filo rotto ma ininterrotto, veloce veloce come un calofaro di rema, schiumoso in mezzo al blu, che si incorollava e scorollava a getto continuo. Quello solo succedeva: la cicirella che aggallava senza catapultarsi in alto. La fissavano sbalorditi, seguendone il flusso, quasi pescicello per pescicello, a bocca aperta, non credendo a quello che vedevano: perché, a memoria d’uomo, a memoria di pellesquadra dello scill’e cariddi, era quella la prima volta che la cicirella eruttava spontanea, la prima volta che non significava che aggallava e contempo o quasi, la seguiva subissando, a summo, il cataclisma: maremoto, terremoto, o mareterremoto, che la eruttò”.

Poi viene chiarito che no, non c’entra il mareterremoto, ma la causa del fenomeno è l’orca stessa, ferita e infuriata, che nei suoi frenetici movimenti tra il fondo e la superficie ha smosso i banchi di cicirella dal fondo e li ha fatti aggallare…

Ma l’analogia che mi ha riportato al ricordo degli stracqui ponzesi di totani o calamari della mia infanzia, sono le descrizioni che seguono:

“Intanto, la lucente minutaglia cogli occhi chiusi, lenta, biancolina, nel flusso della rema morta, galleggiava verso riva come le alighe smosse dallo scirocco di ponente e levante, e i primi fili brillavano già, qua e là, rivariva, sulle rene della ‘Ricchia e sulla marina. I più muccusi dei muccusi, per i quali quella cicirella che da sola cadeva a riva dal fondo del mare come manna, era una assoluta primizia degli occhi, si erano messi a gridare: « Figliò il mare, figliò il mare »
E subito, femminelle e muccusi scasarono con piatti e piattelli, mentre le madri si mettevano a trafficare per accendere il focarello”.

(…) “La cicirella galleggiava rivariva e femminelle e muccusi, sui calcagni o all’impiedi dentro l’acqua, l’andavano raccogliendo con la mano a coppo come scremassero il mare del suo quaglio. Le madri avevano già acceso i focarelli fra i mattoni, e quando muccusi e muccuselli portarono tutti quei piatti di pescicelli argentati, teneri e come di panna, l’infilarono filo a filo nelle stecche di canna tagliate sottili e si misero poi a bruscarli, passandoli velovelo alla fiamma della brace: subito, col fumo, si sparse nell’aria un profumo che avrebbe risuscitato i morti e le donne, girando le stecche alla fiamma, ogni tanto si voltavano a occhìare alla marina, sospirando alla vista della cicirella che continuava ad aggallare, a pullulare alla superficie col suo bianco argentato”.

(…)

La spiaggia dei miei ricordi era quella di Sant’Antonio – una volta anche Giancos – e lo stracquo riguardava i totani.
Noi muccusi – per dirla alla D’Arrigo – eravamo stati svegliati dalle grida che venivano da fuori e con gli occhi ancora pieni di sonno eravamo scesi alla spiaggia.
C’era nell’incerta luce dell’alba un’eccitazione mai vista che ci aveva presto contagiati… Un corri corri generale… ognuno chiamava i vicini e tutti si armavano di secchi e bacinelle, cerate e teli.
Noi ragazzini eravamo frastornati da quella lucentezza argentea che hanno i totani che virano dal rosso in vita al bianco della morte, e non sapevamo dove metterli. Ne riempivamo le tasche e i pantaloni e ne prendevamo bracciate che scivolavano da tutte le parti. E gli adulti che eravamo abituati e vedere calmi e misurati erano presi dalla stessa frenesia… Un arraffa-arraffa con tutto quel che c’era a disposizione e ognuno correndo rideva e gridava… Piglia… piglia…

Conclude D’Arrigo:

“La cicirella che era venuta a sparpagliarsi fra la ‘Ricchia, lo sperone e la marina, inargentava là dintorno la vista col suo brillio, e dai focarelli il suo fumo odorava al naso, e la sua carne di latte si scioglieva in bocca meglio d’un biscottino savoiardo”.