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Horcynus Orca. Ritratti di donne (1)

di Tea Ranno

 

Abbiamo proposto qualche ‘assaggio’ dal capolavoro di Stefano D’Arrigo (… – …), Horcynus Orca proprio agli esordi del sito. Rimandiamo quindi  i Lettori interessati, a quegli scritti, che si possono rintracciare digitando esattamente il titolo del libro nel riquadro CERCA NEL SITO, in Frontespizio. Per altre informazioni sulla genesi del libro, leggi qui [1].
Proponiamo ora altri aspetti di quella sterminata saga, proposti dalla mano felice di Tea Ranno (cerca nell’indice per Autore), relativi a due donne tra le più importanti del romanzo: la Ciccina Circè, dea-femmina-donna, l’avventura di una notte del protagonista ‘Ndrja Cambria e il suo incontro, al ritorno, con Marosa, la sua fidanzata promessa.
Donne di mare e compagne di marinai…
la Redazione

 

Horcynus Orca: le fere, la deissa
di Tea Ranno
5. Fata Morgana di Simona Bonanno.OK [2]

 

In Horcynus Orca, romanzo di Stefano D’Arrigo, il rischio è quello di perdersi, come ci si perde in un quartiere forestiero composto di stradine e vicoli, viuzze che s’incuneano dentro ronchi per sbucare in piccoli slarghi che scoscendono e, intanto che risalgono, inaspettatamente si aprono su panorami a strapiombo che fermano il respiro; poi una piazza, una strettoia, una gradinata, un arco, e di nuovo la strada ritorta che sembra avvolgersi su se stessa e invece guadagna un passaggio verso un cunicolo che sbuca in un belvedere spalancato sullo spazio mirabile di un’altra veduta. Una fortezza/fortificazione, dunque? Un libro inaccessibile? Forse. Per il frettoloso certamente sì, perché coi libri, come con le donne, ci vuole pazienza, la disponibilità a lasciarsi portare, smettere di frapporre ostacoli e affidarsi. Al caso? Alla voce che racconta? Alla musica che suona e incanta e intanto che suona e incanta si fa strada dentro il mistero? Appunto. Perché Horcynus è scandaglio del mistero, ma non col fine minimo di svelarne l’arcano: il mistero inquieta proprio perché resta mistero, così come la donna che, tanto meno si svela, tanto più cattura.

Dunque il libro: storie che germinano una dall’altra: un incontro, una visione, una figura che si staglia netta contro un paesaggio verdino d’aranci, una risatella, un risciacquo d’onda, spiaggiatori, donne che la guerra ha straviato portandole verso regioni scognite. E poi il mare, che è separazione e unione, cordone aggrovigliato di reme madri, reme bastarde, acque morte, gorghi e risucchi, abitato – in quell’anno 1943 – soprattutto da morti.

E’ dell’ottobre 1943 che infatti si racconta, di come il marinaio ‘Ndrja Cambria, nocchiero semplice della fu regia Marina, lasciandosi la guerra alle spalle e percorrendo in giù l’Italia da Napoli alla Calabria, arrivò al paese delle Femmine, e lì cercò il modo per trapassare in Sicilia.

Un ‘trapasso’ per attraversamento del mare. Anzi, del Duemari: quel tratto d’acqua tra Scilla e Cariddi in cui Jonio e Tirreno confluiscono mischiandosi e scavallandosi, partorendo bastardelli di rema che vanno viaggiando pure in senso contrario alla rema madre. In mancanza di ferribò (i traghetti malamente affondati dalla guerra) la traversata è possibile solo con mezzi di fortuna, e di questi ne possiedono le femminote, che continuano a fare la spola da sponda a sponda per guadagnarsi – col contrabbando – il pane.

Ed è proprio una femminota che a fine giornata offre al marinaio il passaggio.
Alta, snella, fasciata strettamente nelle tenebre, senza volto né precisa figura, Ciccina Circé si propone a ‘Ndrja nel buio: “Giovine bello, mi date una mano?“. E il giovine – che già di contrarietà ne conta a decine – non esita ad accettare. Così dalla porta socchiusa della casa di lei spunta un gingillo di barca, ma incatramato, affumicato, nascosto nella sua bellezza, eppure ugualmente magnifico. Gingillo che chiama gingillo: appena varata la barca, infatti, compare una campanella, di quelle che mandano il suono come di un’unghia battuta sul bordo di un bicchiere. Un vezzo? Un capriccio di femmina? Potrebbe darsi.
Ma Ciccina Circé – come si avrà modo di constatare – lo trova sempre un tornaconto in quello che fa. Non appena la barca s’incanala nella rema viva, ecco che a quel dindin affiorano, per accalcarsi intorno al legno come incantate, quelle creature viventi, guizzanti e ridanciane che sono le fere.

Le fere… Altri, più benevoli, le chiamano delfini. Ma no, la fera è la fera. Ci può essere differenza tra fere e delfini?

Col disopra violetto e il disotto rossiccio sono delfini, col disopra bruno e il disotto bianco sono fere: azzarda il marinaio Crocitto.

Ma ‘Ndrja, come tutti i pellisquadre (pescatori) che l’hanno in odio: “La fera è fera” – s’incaponisce. E non crede a quella cosa di cui si va favoleggiando, e cioè che in origine il delfino era un angelo che fu “scafollato dall’Onnipotente in mare dal cielo” e dunque continua a essere un angelo che viene chiamato delfino. Nossignore, ‘Ndrja è convinto che lassopra era una diavola, e quassotto – in quanto sempre diavola – s’è incarnata nella fera, e ce la rappresenta così:

(…) un cervello con occhi e orecchi e con quella bocca di vecchia sguaiata, perfilata però da una minuta, fitta, lucente dentatura, spaventosamente giovanile, la più dotata dentatura che esista; un bell’ornamento di dentini, un buché di duecentosessantaquattro spinedirose d’acciaio temperato. È denti e ragionamenti, dicevano i pellisquadre. Una mente mascelluta e aguzza; una mente di spine senza rose, che nuota e assassina con la stessa velocità, che è più alta di quella del sole“.

Diavola, puttana, porca, sdiregnatrice, troia, assassina: questa è la fera. Una bestia che massacra pesci spada, palamiti, alalonghe e tonni incagliati nelle reti, li decapita, li sbrana pezzo a pezzo, e quando la rete viene tirata su risulta “tagliuzzata, sfilacciata, macinata coi denti e con le unghie, con paziente, accanito rancore, con cristiana, intelligente malvagità di mente“.
Nemica mortale, dunque, per quanti traggono il sostentamento da quei tonni, palamiti, alalonghe e pesci spada che la diavola d’inferno si diverte a lazzariare.

1. Mare-Notte B-N [3]

“Stava, in tutti i sensi, con la testa nel sacco: sacco, sia di notte senza luna, sia d’oscuramento, per cui risultava spento, a Scilla come a Torre, l’occhio di fata del faro…” 

 

Note
– Questi scritti di Tea Ranno sono comparsi originariamente sulla rivista “O” di Omero, Scuola di Scrittura www.omero.it [4]. Vengono ripresi su Ponza racconta per gentile concessione dell’Autrice.
– L’immagine di copertina, di Simona Bonanno, da Flikr

 

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