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Horcynus Orca. Ritratti di donne (1)di Tea Ranno
Abbiamo proposto qualche ‘assaggio’ dal capolavoro di Stefano D’Arrigo (… – …), Horcynus Orca proprio agli esordi del sito. Rimandiamo quindi i Lettori interessati, a quegli scritti, che si possono rintracciare digitando esattamente il titolo del libro nel riquadro CERCA NEL SITO, in Frontespizio. Per altre informazioni sulla genesi del libro, leggi qui.
Horcynus Orca: le fere, la deissa
In Horcynus Orca, romanzo di Stefano D’Arrigo, il rischio è quello di perdersi, come ci si perde in un quartiere forestiero composto di stradine e vicoli, viuzze che s’incuneano dentro ronchi per sbucare in piccoli slarghi che scoscendono e, intanto che risalgono, inaspettatamente si aprono su panorami a strapiombo che fermano il respiro; poi una piazza, una strettoia, una gradinata, un arco, e di nuovo la strada ritorta che sembra avvolgersi su se stessa e invece guadagna un passaggio verso un cunicolo che sbuca in un belvedere spalancato sullo spazio mirabile di un’altra veduta. Una fortezza/fortificazione, dunque? Un libro inaccessibile? Forse. Per il frettoloso certamente sì, perché coi libri, come con le donne, ci vuole pazienza, la disponibilità a lasciarsi portare, smettere di frapporre ostacoli e affidarsi. Al caso? Alla voce che racconta? Alla musica che suona e incanta e intanto che suona e incanta si fa strada dentro il mistero? Appunto. Perché Horcynus è scandaglio del mistero, ma non col fine minimo di svelarne l’arcano: il mistero inquieta proprio perché resta mistero, così come la donna che, tanto meno si svela, tanto più cattura. Dunque il libro: storie che germinano una dall’altra: un incontro, una visione, una figura che si staglia netta contro un paesaggio verdino d’aranci, una risatella, un risciacquo d’onda, spiaggiatori, donne che la guerra ha straviato portandole verso regioni scognite. E poi il mare, che è separazione e unione, cordone aggrovigliato di reme madri, reme bastarde, acque morte, gorghi e risucchi, abitato – in quell’anno 1943 – soprattutto da morti. E’ dell’ottobre 1943 che infatti si racconta, di come il marinaio ‘Ndrja Cambria, nocchiero semplice della fu regia Marina, lasciandosi la guerra alle spalle e percorrendo in giù l’Italia da Napoli alla Calabria, arrivò al paese delle Femmine, e lì cercò il modo per trapassare in Sicilia. Un ‘trapasso’ per attraversamento del mare. Anzi, del Duemari: quel tratto d’acqua tra Scilla e Cariddi in cui Jonio e Tirreno confluiscono mischiandosi e scavallandosi, partorendo bastardelli di rema che vanno viaggiando pure in senso contrario alla rema madre. In mancanza di ferribò (i traghetti malamente affondati dalla guerra) la traversata è possibile solo con mezzi di fortuna, e di questi ne possiedono le femminote, che continuano a fare la spola da sponda a sponda per guadagnarsi – col contrabbando – il pane. Ed è proprio una femminota che a fine giornata offre al marinaio il passaggio. Le fere… Altri, più benevoli, le chiamano delfini. Ma no, la fera è la fera. Ci può essere differenza tra fere e delfini? Col disopra violetto e il disotto rossiccio sono delfini, col disopra bruno e il disotto bianco sono fere: azzarda il marinaio Crocitto. Ma ‘Ndrja, come tutti i pellisquadre (pescatori) che l’hanno in odio: “La fera è fera” – s’incaponisce. E non crede a quella cosa di cui si va favoleggiando, e cioè che in origine il delfino era un angelo che fu “scafollato dall’Onnipotente in mare dal cielo” e dunque continua a essere un angelo che viene chiamato delfino. Nossignore, ‘Ndrja è convinto che lassopra era una diavola, e quassotto – in quanto sempre diavola – s’è incarnata nella fera, e ce la rappresenta così: “(…) un cervello con occhi e orecchi e con quella bocca di vecchia sguaiata, perfilata però da una minuta, fitta, lucente dentatura, spaventosamente giovanile, la più dotata dentatura che esista; un bell’ornamento di dentini, un buché di duecentosessantaquattro spinedirose d’acciaio temperato. È denti e ragionamenti, dicevano i pellisquadre. Una mente mascelluta e aguzza; una mente di spine senza rose, che nuota e assassina con la stessa velocità, che è più alta di quella del sole“. Diavola, puttana, porca, sdiregnatrice, troia, assassina: questa è la fera. Una bestia che massacra pesci spada, palamiti, alalonghe e tonni incagliati nelle reti, li decapita, li sbrana pezzo a pezzo, e quando la rete viene tirata su risulta “tagliuzzata, sfilacciata, macinata coi denti e con le unghie, con paziente, accanito rancore, con cristiana, intelligente malvagità di mente“. “Stava, in tutti i sensi, con la testa nel sacco: sacco, sia di notte senza luna, sia d’oscuramento, per cui risultava spento, a Scilla come a Torre, l’occhio di fata del faro…”
Note
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